sabato 20 dicembre 2014

Immune ai sacrilegi (2)

Ad attenderlo nella sala, ormai ripulita dai resti dell’incursione di cinque giorni prima, stava un uomo in abiti da viaggio impolverati e logori. La corporatura snella rivelava una certa solidità nel dorso ampio e nelle gambe ben piantate, la barba e i capelli sotto la polvere erano ancora nerissimi. 
Non appena vide Pelias avvicinarsi, l’uomo allargò le braccia e gli rivolse un largo sorriso. «Cosa deve fare un ospite in questa casa per avere offerto del vino e un bagno caldo? – chiese, ridendo – Non sei un bravo padrone di casa, fratello!». I tratti del viso erano in tutto simili a quelli Pelias, salvo che per l’assenza di rughe e un’espressione gioviale, che spesso si contrapponeva allo sguardo arcigno del fratello maggiore. 

Anche quella volta Pelias non era in vena di scherzi. «Neleo! Sei arrivato, finalmente! – rispose corrugando le sopracciglia – Se avessi tardato ancora mezza giornata, ti avrei considerato escluso dagli accordi.».

Neleo roteò gli occhi, sospirando di noia alle minacce del fratello. «Sai, la Messenia non è proprio dietro l’angolo. E i cavalli hanno bisogno di cibo e riposo durante un viaggio così lungo. Per Zeus, Pelias, è così che si accoglie un parente che non vedi da due anni?». Si slacciò il mantello e lo lasciò ricadere in una nuvola di polvere, mentre Pelias dava sfogo al suo malumore, camminando da una parte all’altra della stanza. 
Neleo mostrò di non farci caso e continuò: «Inoltre, se non sbaglio, sei stato tu a consigliarmi di stare lontano dalle strade più battute, “per non dare nell’occhio”, hai detto! Questo, mio caro, ha allungato di molto il mio viaggio, per non parlare…».

«Adesso basta! - sbraitò Pelias, esasperato da quel cicaleggio saccente - Ne ho abbastanza delle tue scuse! Se non fosse stato per me, quel bastardo di Esone sarebbe ancora vivo! Tutto ciò che è nostro di diritto sarebbe stato ancora nelle sue mani, se avessi aspettato che tu arrivassi con tuo comodo!». Si avvicinò al fratello, col viso appena a un palmo dal naso, mentre lui continuava a guardarlo con l’aria tediata di chi sa già cosa sta per sentire. 
Pelias gli afferrò le braccia con entrambe le mani: «Come puoi essere così indifferente alla nostra causa? A volte dubito che abbiamo lo stesso sangue!». Lo lasciò andare con una smorfia di disprezzo.

Neleo, invece, continuava a guardarlo tra l’annoiato e il divertito. Difficilmente qualcosa riusciva a impressionarlo, men che meno i rimproveri di suo fratello. «Oh, mio caro Pelias, sono figlio del divino Poseidone quanto te, te lo assicuro! Certo, a vedere quanto il tempo sia stato molto più crudele con te che con me, anch’io non direi che siamo usciti da nostra madre lo stesso giorno. Il Signore dei Mari non poteva lasciarmi eredità migliore del mio aspetto! Tu invece sembri appassire ogni anno di più. Dovrei essere io ad avere dei dubbi sulla tua natura, se i miei piedi non ti avessero preso a calci fin dal ventre materno!». E scoppiò nella risata che di solito metteva fine a ogni polemica. 

Ma questa volta Pelias non uscì dalla stanza pestando i piedi. La sua destra, invece, corse alla gola di Neleo in uno scatto inaspettato. «Posso rimediare agli errori del tempo in un istante, fratello. Magari perderai i denti prima di me!». Pelias non era svelto di lingua come il fratello, ma stavolta le parole ebbero il loro effetto. La risata di Neleo cessò di colpo e allora Pelias gli permise di deglutire. «Nostra madre e la sua ingratitudine sono la causa di questi capelli bianchi e di queste rughe. Non c’entra niente il mio sangue!».

«Era solo un gioco, Pelias», commentò Neleo massaggiandosi il collo, la voce ancora roca, ma sempre annoiata. «Non hai mai imparato a ridere dei miei giochi».

Pelias aveva ripreso a camminare furente, sbuffando come un toro. «E tu non hai mai imparato a giocare di meno e ad agire di più! Ho sempre dovuto lottare io per tutti e due. Anche ora, io mi imbratto le mani di sangue e fango e tu vieni a prenderti gioco di me e delle mie fatiche!»

«Non oserei mai recarti una simile offesa.» rispose Neleo, per nulla turbato. «Io rispetto le tue… fatiche. E sono pronto ad ammettere che in queste cose tu sei sempre stato più valido di me. Persino nostra madre è stata costretta ad ammetterlo...» Sapeva quali corde toccare e lo faceva sempre con un sorriso sardonico che Pelias non poteva soffrire.

«Non osare.» sibilò, fulminandolo con lo sguardo. «Per lei ho fatto sacrifici che tu non riusciresti neanche a concepire! Ho sfidato gli dei stessi, per lei!»

Neleo aprì la bocca in un sonoro sbadiglio e iniziò a massaggiarsi i muscoli delle spalle, contratti per la stanchezza. «Più che una sfida, - puntualizzò, con la solita aria di scherno – direi che uccidere una donna nel tempio di Hera potrebbe definirsi sacrilegio! Certo, nostra nonna era una vecchia davvero insopportabile…ma fossi in te, non me ne vanterei più di tanto.».

Questo era troppo. «E tu non hai forse goduto dei vantaggi dei miei sacrilegi? – ruggì Pelias - Tutto ciò che ho fatto, tutto il sangue che ho versato fino ad oggi è stato per noi, per reclamare i diritti di nascita che nostra madre ci ha portato via, sposando un lurido re mortale e preferendo a noi quel bastardo di Esone! Lei ha sputato sull’amore del divino Poseidone, ma io non ho commesso lo stesso errore! Io sono immune ai sacrilegi!» La grossa vena sul collo di Pelias sembrava sul punto di scoppiare.

Neleo fece un piccolo passo indietro, tenendo d’occhio le mani del fratello, e solo quando lui gli voltò di nuovo le spalle emise un sospiro di sollievo. «Possibile che dopo tutti questi anni torniamo a litigare sempre sugli stessi argomenti?». La noia era sempre presente nella sua voce, ma decise di provare a mettere una mano sulla spalla del fratello, in segno di riconciliazione: «Conosco bene tutti i tuoi sacrifici, Pelias, e non posso che essertene grato. Sai che onorerò gli accordi e ti aiuterò in tutti i tuoi progetti. Dimentica il passato, scaccialo con le ombre dei tuoi nemici che ormai giacciono nell’Ade. Goditi la vittoria del presente e contempla il potere che ti aspetta in futuro. Io starò al tuo fianco e nessuno oserà tenere testa alle nostre forze unite. Il palazzo è tuo, così come il regno di Iolkòs. Perciò perché continui a roderti il fegato in questa rabbia senza fine?».

Pelias gonfiò il suo enorme petto in un altro sospiro, prima di rispondere: «Il figlio di Esone è ancora vivo. Stando a quanto dicono i miei uomini, quella folle di Polimede lo avrebbe affidato a un cavaliere sbucato dal nulla e scomparso con la stessa velocità.».

Neleo sollevò un sopracciglio, perplesso: «E tu ti fidi dei vaneggiamenti di un pugno di ubriachi che inventerebbero qualsiasi cosa, pur di salvarsi la testa? Probabilmente lo avrà nascosto in qualche grotta o capanna abbandonata. Se è così, il piccolo avrà già fatto la fine di suo padre.»

Pelias scosse la testa. «L’ho pensato anch’io, per questo ho setacciato personalmente la foresta in lungo e in largo, ma non ho trovato traccia né del bambino, né di…cavalli. Sembra sparito nel nulla.». 

Neleo abbozzò uno dei suoi sorrisetti sfottenti. «Non mi dire che credi alla storia del cavaliere!». Fece segno a uno schiavo di passaggio di portargli del vino.
Pelias lo guardò infastidito per un lungo momento, prima di rispondere. «Se anche fosse, sarebbe un cavaliere fantasma, perché ti ho detto che non ho trovato tracce!». Si rendeva conto di cedere sempre troppo facilmente alle provocazioni di Neleo, ma l’autocontrollo in quel momento era l’ultimo dei suoi pensieri.

E intanto Neleo continuava a ridere. «Magari qualche lupo sta rompendo il digiuno proprio in questo momento. Non credo che quelle bestie facciano molta differenza tra un bambino e un agnello!»

«E allora perché non ho trovato ossa, brandelli di vesti o qualche resto sanguinolento?», ribattè Pelias sempre più irritato.

Intanto Neleo prese la coppa di vino dalle mani di uno schiavetto, ringraziandolo con una pacca sulle natiche. «Animali furbi, i lupi!», rispose con prontezza. «È solo un bambino in fasce, Pelias! Se non è stato ancora sbranato, morirà presto di stenti in qualche anfratto del bosco!». Si mise a sorseggiare il vino, senza l’ombra della preoccupazione.

Pelias guardò il fratello dritto nelle iridi blu come il mare, identiche alle proprie: «Anche noi, quando eravamo ancora in fasce, siamo sopravvissuti all’abbandono. Se dovesse spargersi la voce che l’erede di Esone è ancora vivo, il regno sarebbe continuamente funestato da rivolte…».
«…che reprimeremo prontamente.», concluse Neleo con sicurezza.

Pelias emise un grugnito di impazienza, riprendendo a camminare per la stanza. «Non posso e non voglio lottare per sempre! Mantenere il potere è più arduo che conquistarlo. Finché ci sarà qualcuno convinto che il sangue di Esone potrà tornare a governare, né io né la mia famiglia godremo di sonni tranquilli.». 
Raramente Pelias nominava la sua sposa o i suoi figli e questo sembrò togliere a Neleo ogni voglia di commentare nei suoi modi sarcastici. Anche Pelias sembrava stanco di quella conversazione e, in silenzio, immerso in chissà quali riflessioni, andò a fissare lo sguardo su uno degli affreschi del megaron. Un corteo di fanciulle inghirlandate, che levavano le braccia bianche a offrire libagioni a Zeus, Padre dell’Olimpo. 
Neleo lo imitò e iniziò a girare per le pareti della sala reale, guardando ora le pitture, graffiate in qualche punto, ora i resti bruciacchiati di un tendaggio, ora una goccia di sangue incrostato su una mattonella del pavimento, che cercò di grattare via con la punta del suo calzare.

Pelias si era accasciato esausto sul trono appartenuto al fratellastro Esone, gli occhi fissi sul focolare pieno di cenere al centro della sala, quando la voce calma di Neleo richiamò la sua attenzione. «Organizza un funerale per il bambino – disse, senza staccare lo sguardo da quella goccia di sangue – Una cerimonia pubblica, a cui tutti potranno partecipare per assistere alle esequie dell’erede. Dirai che è stato colpito da un male improvviso e che il suo tenero corpicino non ha resistito agli ardori della febbre.». Quando rialzò la testa, Pelias notò un certo scintillio lampeggiargli negli occhi, lo stesso che molte volte gli aveva visto in passato prima che mettesse in atto qualche nuova astuzia.

Il nuovo padrone del megaron iniziò a grattarsi il mento. «Mh…Ma vorranno vedere un corpo… - obiettò – Persino un asino si accorgerebbe della messinscena senza una salma da onorare.».
Neleo si avvicinò di nuovo al fratello, con aria compiaciuta. Il suo sorriso adesso avrebbe fatto rabbrividire il dio Ade in persona. Avvicinò la bocca all’orecchio di Pelias, di certo non per paura che qualcuno potesse sentirli. Il tocco della mano sulla sua spalla e il fiato nel suo orecchio rinnovò in Pelias quel senso di complicità che così spesso metteva in discussione. 

Neleo sussurrò: «Lascia che me ne occupi io.».

domenica 7 dicembre 2014

Immune ai sacrilegi

Un raggio di sole trapassò la barriera delle ciglia e Polimede si svegliò. Aveva sete. Si sentiva come se l’avessero strappata all'oscurità dell’oltretomba: la luce del giorno, che irrompeva nella stanza da una finestra proprio di fronte a lei, le feriva gli occhi, alimentando un martellante mal di testa. La gola riarsa le impediva di emettere il benché minimo suono ed ogni singolo osso del suo corpo le doleva talmente, che pensava fosse sul punto di spezzarsi. Sentì un vago rumore di passi concitati vicino a lei: qualcuno doveva essere uscito di corsa dalla stanza. Tentò di mettersi a sedere, nonostante la vista ancora annebbiata, ma non appena provò a muovere il braccio destro, una fitta di dolore paralizzante le tolse il respiro. Polimede ebbe la sensazione che una vampata di fuoco le rodesse la carni dalla spalla fino alla base della schiena. Dal bacino in giù, invece, niente. Non sentiva neanche lo sfregamento del lenzuolo che la copriva. E questo la terrorizzò.
“È successo davvero…”. La donna sentì la gola serrarsi in un groppo. Per un attimo aveva sperato di essere ancora nel suo talamo, sul suo letto, accanto al suo sposo. Aveva sperato di aver solo sognato quella notte di sangue. La realtà, invece, la raggiunse in una stanza angusta, su un giaciglio stretto e un materasso di paglia. Aveva la sensazione che fosse ancora nel suo palazzo, ma doveva trovarsi in uno degli alloggi destinati agli schiavi.
A fatica portò la mano sinistra al petto e al fianco: aveva il busto coperto di bende di lino e un impacco d’erbe ancora fresco e maleodorante sulla spalla, nel punto in cui una delle frecce l’aveva trafitta. Non fece in tempo a chiedersi come fosse arrivata fin lì, che una voce alla sua sinistra venne a risponderle.

«Sei ancora nel palazzo, mia signora. O meglio, quello che era il tuo palazzo.». Una voce d’uomo confermò la sua sensazione. Era profonda e suadente, ma alle orecchie di Polimede suonò come il sibilo di un cobra. 
«Pelias…», sussurrò la donna in una smorfia di disgusto. Rimase immobile, con lo sguardo fisso sulle travi del soffitto. La sola idea di guardare in faccia quel traditore, quell'assassino, quel demone, la ripugnava. Sentiva l’impulso di saltargli alla gola e farlo a brandelli con le mani e coi denti. Ma non ne aveva le forze e preferì ignorare l’istinto piuttosto che vederlo frustrato.
Non riuscì, però, a resistere alla tentazione di voltarsi, quando udì il rumore sordo di qualcosa gettato sul pavimento accanto a lei. Girò appena la testa, quel tanto che bastava per vedere con la coda dell’occhio due oggetti rotondi, ricoperti di una peluria bruna. Dapprima non capì che cosa fossero, ma poi una delle due sfere continuò a rotolare verso di lei, rivelando in un ultimo giro una faccia livida, con occhi e bocca spalancati. Erano due teste. La pelle cerea, le pupille vitree, i capelli e il mento sporchi di sangue incrostato, lì dove una lama le aveva separate dal corpo. 
Polimede fu presa da un conato, che a stento riuscì a trattenere. Nel distogliere lo sguardo da quell'orribile scena, la donna incontrò suo malgrado quello di Pelias, che sfoggiava un affabile sorriso, guardandola dall'uscio della stanza. Dietro di lui una schiava stava in piedi, appoggiata allo stipite della porta, con evidenti segni di violenza sul viso e sulle braccia. Doveva essere stata lei ad avvertire il nuovo padrone del risveglio della sua prigioniera. 

«Avevo ordinato loro di non farti del male, mia signora – riprese Pelias, indicando i due macabri resti – Come vedi, sono stati adeguatamente puniti.». Si avvicinò al letto di Polimede, calciando via una delle teste che lo intralciava. «Purtroppo è difficile trovare uomini capaci di eseguire gli ordini come si deve.», aggiunse. Aveva un’espressione di accondiscendenza sul volto, mentre con una mano si lisciava la barba ben curata, che accennava a incanutirsi. Nonostante l’età non più giovane, tutta la sua persona mostrava una forza ancora notevole e temibile: il collo taurino, le spalle larghe, il busto dritto e solido, come fosse di pietra. Tuttavia la brutalità del suo corpo era ben dissimulata da una maschera di gentilezza, che sapeva indossare con disinvoltura nel momento più opportuno.

Polimede non poteva tollerare un’ipocrisia tanto crudele: «Hanno ben eseguito il più empio dei tuoi ordini! – ringhiò in risposta, con voce rauca – Hanno ucciso il mio sposo. Hanno ucciso tuo fratello! E se avessero ucciso anche me, li avrei benedetti dalle profondità dell’Ade. Eppure le tue mani sono più insanguinate delle loro!». La gola le bruciava tremendamente ad ogni parola, ma non le importava. La vista di quel volto impassibile e soddisfatto alimentava in lei una rabbia più grande del suo dolore. «Che le Erinni ti perseguitino in eterno.», lo maledisse, ritirando lo sguardo. 

Pelias la guardava come si guarda un bambino capriccioso, poco curandosi delle sue maledizioni e ancor meno del suo odio. «Mia cara Polimede, - disse sedendole accanto sul letto – è così che ripaghi la mia pietà? Se non fosse stato per me, adesso giaceresti nella foresta a far da cibo agli uccelli e da concime agli alberi. Dovresti mostrare più gratitudine al tuo salvatore!».

Per tutta risposta, Polimede gli sputò in pieno viso.

Pelias si asciugò la guancia con il dorso della mano, reprimendo in uno sbuffo la voglia di ricambiare l’insulto con un manrovescio. Riprese il sorriso che aveva abbandonato per un istante e disse: «Cerca di essere ragionevole, mia cara cognata. Ti sto dando la possibilità di salvare te stessa e tuo figlio.».
A quella frase, il volto di Polimede si irrigidì. 
«So che è vivo. – continuò Pelias - Dimmi dov’è e a chi l’hai affidato e ti prometto che manderò i miei uomini a prenderlo, per restituirlo alle tue cure. Crescerà qui con te e sarà trattato come uno dei miei figli. Non gli sarà fatto alcun male.».

Polimede scoppiò in una risata soffocata, tanto tremenda quanto inaspettata. «Se queste sono le tue promesse, “mio salvatore”, ringrazio gli dei che il mio bambino sia morto!».
Pelias sbuffò ancora spazientito. La maschera si dissolse. «Non mentirmi, donna! So che l’hai affidato a qualcuno nella foresta. Dimmi a chi, o giuro che assaggerai le pene dell’Ade prima ancora di varcarne le soglie!».

Polimede continuava a ridere in faccia alla frustrazione del suo aguzzino. Poi con un immenso sforzo si alzò sui gomiti, avvicinando ancora di più il suo volto a quello di Pelias. «Mio figlio è morto. – sussurrò, scandendo ogni sillaba – Puoi fare di me ciò che vuoi, puoi divorare le mie carni crude, come il cane che sei, ma non riuscirai a cambiare queste parole. Mio figlio è morto!».
Le iridi di Pelias, dello stesso blu profondo degli abissi marini, furono attraversate da un lampo d’ira, ma lui non emise un fiato. Lentamente, poggiò una mano sulla spalla ferita di Polimede e iniziò a stringerla con forza, obbligando la donna a sdraiarsi di nuovo, tra spasmi di dolore. 
«Riposa, mia signora. Il sonno e il tempo guariranno di certo il tuo enorme lutto.». Disse con la sua solita voce melliflua, prima di alzarsi e lasciare stanza. Polimede emetteva rauchi mugugni per la sofferenza del corpo, ma con gli occhi e le labbra godeva della sua vittoria.

Nell'uscire, Pelias riversò tutta la sua rabbia sulla schiava, che era rimasta a guardare sulla soglia. Afferrandola per i capelli, la spinse violentemente verso il letto di Polimede e ordinò: «Fa’ che viva. Se morirà, tu la seguirai sul rogo». Detto questo, a grandi passi nervosi si diresse verso il megaron.

domenica 23 novembre 2014

Voce di Dea

Volute di fumo odoroso esalavano da bracieri ardenti colmi d’incenso, riempiendo il soffitto del tempio di una foschia appena rischiarata dalle fiaccole attorno alla sacra effigie. La luce ondeggiante della loro fiamma sembrava dar vita ai duri contorni di pietra della divinità con giochi d’ombra sempre diversi. La scultura aveva forma di donna, magnifica e imponente nella sua regalità, con i capelli inanellati che le scendevano lungo il petto, sul capo un’alta corona, decorata nei minimi particolari. Con la mano destra reggeva un melograno, simbolo di fertilità, e nella sinistra, distesa lungo il fianco, una verghetta dipinta d’oro.
Ai suoi piedi ardeva un fuoco perenne in un braciere dorato più grande degli altri. Davanti alla sua luce vermiglia un agnello bianco, nato da pochi giorni, belava impaurito sotto la ferrea stretta di Altea. La sacerdotessa lo teneva bloccato con una mano sulla lastra di marmo dell’altare, mentre con l’altra stringeva un coltello dalla lama lucente e affilata. Sussurrava a fior di labbra parole indistinguibili, preghiere antiche, formule sacre in una lingua straniera, sconosciuta ai Colchi, sudditi di Eeta. Una novizia le stava accanto, in piedi e con il capo velato, per assisterla nel rito sacrificale. 

Concluse le formule, Altea appoggiò lentamente la lama sulla gola tremante dell’agnello, che al freddo tocco del metallo iniziò a belare più forte di prima. 
«O Grande Hera, Madre di tutti gli dei – intonò la sacerdotessa ad alta voce – Io ti offro questo sacrificio e imploro il tuo aiuto, o divina. Fa’ che questa carne e questo sangue siano doni a te graditi, ed esaudisci le mie preghiere.». I belati cessarono di colpo, mentre rivoli di sangue creavano venature vermiglie sul marmo. La novizia porse ad Altea un coltello più piccolo, con cui la sacerdotessa iniziò a sezionare ed eviscerare la vittima. Separò la carne dalla pelle e dalle ossa e la pose su un piatto d’argento, perché la novizia la gettasse nel fuoco. Immediatamente un fumo acre e denso si levò dal braciere, avvolgendo il viso bianco della statua di Hera. 
Una volta terminato il rito cruento, la novizia diede ad Altea una bacinella d’ottone piena d’acqua ed un telo candido, perché potesse ripulirsi dal sangue appena versato. Quando l’acqua si tinse tutta di rosso, la ragazza, senza fiatare, mise via la bacinella e consegnò ad Altea una tazza in terracotta, contenente un liquido opaco dall'odore dolciastro: un infuso di semi d’oppio e belladonna. La sacerdotessa congedò con un cenno della testa la sua assistente, che uscì, lasciandola in ginocchio davanti alla statua.
Altea inspirò profondamente e portò alle labbra la tazza, bevendone il liquido a piccoli sorsi. Quando finì, riprese le sue bisbigliate preghiere, volgendo il viso e le mani alla divinità, rilassando le spalle in un completo abbandono. L’agitazione che l’aveva colta, dopo essere uscita dal palazzo di Eeta, andava placandosi. L’immensità inviolabile del tempio le dava sempre un senso di protezione e sicurezza, e lei vi si immergeva, avvolta dai profumi degli incensi e degli oli sacri. Circondata dai colori sgargianti dei rilievi e delle statue, Altea si sentiva penetrare in un altro mondo, fatto di forza, splendore e immortalità. 

«Grande Hera, - riprese -, Sposa di Zeus, Madre e Regina dell’Olimpo, somma tra tutte le dee, vieni in mio soccorso. Illumina con la tua saggezza i miei pensieri. Districa i nodi della mia anima. Concedimi la conoscenza.».
Poi, con gli occhi chiusi, cominciò a intonare una cantilena, ripetendola incessantemente, finché ogni pensiero abbandonò la sua mente per lasciare il posto soltanto alle parole: «Gnomèn dòs moi, Theà, Bòopis Hèra.». Dammi la conoscenza, o Dea, Hera dagli occhi bovini. Parole di un popolo antico e lontano, conservate in quel tempio per onorare gli dei patri con la lingua da loro creata.
Cullata dalla litania, Altea si sentiva quasi sollevare. Separata dal suo corpo, vagava al di là delle mura di pietra ben levigata, più in alto delle colonne, oltre il cielo e le nuvole, nuotando nella luce abbagliante del sole. La bevanda sacra cominciava a fare effetto.

«Gnomèn dòs moi, Thea…».
L’azzurro marino del cielo.

«Gnomèn dòs moi, Thea…».
La persistente fragranza dell’incenso.

«Gnomèn dòs moi…».
Il dolce sapore dell’ambrosia, nettare divino.

«Gnomèn dòs…».

L’oceano di luce lasciò il posto a un turbinio di stelle e nel blu dell’infinito comparvero due grandi occhi, due sfere perfette, nere come la notte più profonda, languide come polle d’acqua. Una melodiosa voce di donna riecheggiava nelle eteree profondità. L’essenza stessa della femminilità avrebbe avuto quel suono. 

“Venerabile Altea, la tua mente vede chiaro e lontano. La tua volontà è forte e saggia. Ma gli occhi del fato sono più acuti e la volontà degli dei più forte di qualsiasi mortale. Il possente Prometeo tentò di penetrare la divina sapienza e ancora sconta la sua condanna. Se proverai a sfuggire al divino volere, la rovina si abbatterà inesorabile e spietata. Se lo asseconderai, come fa il giunco con l’onda del fiume, troverai la salvezza.”.

Immagini fumose danzavano alla musica di quella voce, come marionette guidati da fili invisibili. Un guerriero dall'armatura splendente marciava, pestando un piede coperto di bronzo, e poi l’altro, nudo ed escoriato. Ma l’uomo con un solo sandalo non si curava della scia di sangue che lasciava dietro di sé. E la scia diventava mare, le cui onde riportavano a galla cruenti stralci d’uomo: una gamba, poi un braccio, poi una mano. E il ribollire delle onde si trasformava in un calderone d’acqua schiumante, che tra grida e pianti avvolgeva le carni di un uomo in preda a convulsioni. La voce non era più musica, ma una risata potente, terribile, irrefrenabile.

Poi il silenzio. L’armonia di suoni e colori si spense insieme ai mostri danzanti ed Altea ripiombò nella luce soffusa del tempio. Le fiaccole si erano ormai quasi del tutto consumate ed i bracieri pieni di cenere emanavano soltanto esili linee fumose. Altea percepì il freddo del pavimento sul viso, le tempie pulsanti come tamburi, la bocca secca e gli arti intorpiditi: doveva essere rimasta sdraiata lì per ore. 
Non appena riprese conoscenza, la sacerdotessa puntò le mani per terra, tentando di rialzarsi tra le proteste di muscoli e giunture. Barcollò sulle gambe incerte, reggendosi la testa come fosse un macigno. Nelle orecchie le ronzavano ancora strascichi di voci indefinite, le cui parole erano però ben chiare nella mente, come scolpite nel bronzo. 
Altea sentì il bisogno del suo bastone d’ebano e con il suo sostegno si avviò all’uscita del tempio a passi lenti. Sulla soglia, superata l’ultima colonna, si voltò nuovamente a guardare la statua della dea, silenziosa e immobile, bellissima e terribile.

“Ho sentito la tua ira, Divina Signora. Ho visto il baratro a cui conduce. Che tu possa placarti, che tu possa ritrovare la pietà nel tuo cuore immortale.”. Per un istante Altea desiderò poter credere che si fosse trattato solo di un sogno, un incubo insignificante. Ma era un lusso che non poteva permettersi. Non era la prima volta che udiva la voce della sua dea.
La donna uscì, respirando a pieni polmoni, perché l’aria infuocata del tramonto scacciasse la fuliggine dai suoi pensieri. Si raccolse la chioma canuta in una crocchia disordinata e prese il sentiero scosceso, che dal versante occidentale del colle, dove si trovava il tempio, conduceva alla spiaggia. 

Ad ogni passo, Altea sentiva riprendere il controllo del proprio corpo. Prima le gambe, poi la schiena, le braccia e le mani. Le guance a poco a poco riprendevano calore e la bocca non era più impastata. La testa però era ancora così pesante…Il cranio le rimbombava come se uno scalpellino glielo stesse martellando dall'interno. Solo un pensiero le era chiaro: “come fa il giunco con l’onda del fiume”

“Quanto sangue, quanto dolore porterà con sé questo fiume? Che cosa ha scatenato la tua furia, oh Divina?”. La discesa verso il mare era ripida, la strada inasprita da sterpaglie e sassi. Altea traballava sul suo bastone e improvvisamente si sentì vecchia e stanca e sola. “Come puoi chiedermi di stare a guardare mentre tutto attorno a me crolla. I tuoi figli, uomini e donne devoti a te e alla tua stirpe celeste…tutti distrutti. Perché?” 

- Non ti è dato sapere. – ripeteva la voce nella sua testa, inflessibile come la lama di un coltello. 
Altea scuoteva la testa. Per la prima volta avrebbe voluto venir meno ai suoi voti, correre dalla regina e rivelarle la verità, aiutarla a scappare.
- Scappare per dove? Non sei poi così saggia, sacerdotessa, se credi che si possa sfuggire al proprio destino! – La derise la voce. 
Altea udì ancora quella risata terribile e non capiva se era reale o semplice strascico della bevanda all'oppio. 

Pregò con tutto il cuore che almeno anime innocenti non dovessero soffrire punizioni riservate ad altri. La sua mente andò a Idia, una regina tanto dolce quanto umile, e ai suoi figli, Calciope, così simile a lei, e i pargoli che ancora portava in grembo. Il destino lasciava il suo marchio su vite ancora non nate.
- Ma tu sei in grado di riconoscere l’innocenza?-. La voce della dea risuonò un’ultima volta nelle orecchie di Altea, come se le stesse accanto. La sacerdotessa non rispose. Un ultimo passo oltre le sterpaglie e una manciata di sabbia calda le avvolse i sandali. Quella sensazione le dava sempre un piacevole brivido alla schiena.

“L’intreccio dei tuoi fili è troppo intricato e oscuro da comprendere, divina Hera.”, ammise Altea. “Ciò che hai deciso si compierà come desideri. Ma tu, che mi hai creato e consacrato, sai già quale sarà il mio ruolo.”. La voce nella sua testa rimase in silenzio. 

La placida danza delle onde, il profumo della salsedine, il richiamo dei gabbiani: era così che Altea immaginava la pace dei campi elisi. L’infinita distesa del mare color del vino, che accompagna lo sguardo verso l’orizzonte, lontano dalla terra piena di passioni, fino a congiungersi con la tersa immensità del cielo. “Non sono mai stata un giunco.”

domenica 9 novembre 2014

Tradimento di sangue (2)

Pelias, suo cognato, il fratello del suo sposo era dunque il responsabile? “Non è possibile!”. Un’indicibile stanchezza e una sconfinata disperazione le piombarono addosso. Polimede voleva fermarsi, arrendersi al destino che incombeva su di lei, farsi catturare soltanto per guardare negli occhi il traditore e riversare su di lui tutto il suo odio. Ma ad un grido del figlio, più acuto degli altri, la donna si riscosse. Scacciò la rabbia in un angolo della sua anima e, attingendo da essa nuova forza, riprese a correre. “Salva il bambino”. La voce del suo amato Esone le risuonava nella testa, le lacrime sgorgavano, ma la regina continuava a correre. Non doveva ascoltare il rumore di ferraglia dietro di lei. Doveva ignorare i latrati dei soldati sempre più vicini. Si guardava intorno in cerca di un riparo dalla luce rivelatrice della luna. 

Come in risposta alle sue tacite preghiere, dopo qualche istante dal buio davanti a lei emersero i contorni di una fitta distesa di alberi, che ricopriva le pendici di un colle. Un tempo i contadini vi andavano a fare rifornimento di legna per l’inverno ed i cacciatori a procurarsi la carne di qualche cinghiale di tanto in tanto. Ma da diversi anni nessuno aveva più osato mettervi piede, per via di certe storie su un mostro, un essere ibrido dagli occhi di ghiaccio, né uomo né bestia, che aveva infestato la foresta, scacciandone tutti gli animali. Un luogo maledetto di giorno e temuto di notte. 
Quel bosco tenebroso era l’unica speranza per Polimede. Con un ultimo scatto delle gambe, la donna riuscì a inoltrarsi nell’oscurità protettiva dei faggi frondosi, lasciandosi alle spalle le imprecazioni dei suoi inseguitori. Si insinuò fra tronchi e cespugli, si nascondeva come una lepre da una muta di cani, nel tentativo di far perdere le proprie tracce. Gli uomini, però, continuavano ad accanirsi sulla vegetazione senza sosta con asce e spade, per aprirsi la strada e scovare la loro preda. 
Polimede avanzava a tentoni su per la china del colle, nel buio più nero, cercando di orientarsi con i deboli raggi di luna che filtravano dai rami più alti. Continuava a ripetersi che, se fosse riuscita a valicare la cima, forse sarebbe riuscita a seminarli, forse si sarebbe salvata. Controllava ogni passo, ogni respiro, temendo che il minimo rumore potesse tradirla. Persino il bambino sembrava percepire il pericolo che lo circondava: non piangeva, né vagiva più. Se ne stava quieto, nascondendo la testa nel petto della madre, pieno di inconsapevole fiducia.
«Per Zeus! Dov’è finita quella scrofa?!», berciò uno dei soldati per la frustrazione.
La regina sentì così vicino quel grido, che incespicò per lo spavento: nella corsa mise un piede in fallo e cadde su un mucchietto di rami secchi. Nel silenzio della foresta, quel rumore di rami spezzati risuonò come uno schianto. 
«Di qua!», urlarono subito più soldati insieme, dirigendosi verso la fonte del rumore. 
Sentendosi stanata, Polimede si rialzò, non curante dei graffi che ormai le riempivano le caviglie e i polpacci, e riprese a correre, abbandonando ogni prudenza. Il fiato cominciava a venirle meno, mentre l’aria gelida della notte le bruciava i polmoni e i piedi nudi escoriati da sassi e schegge non riuscivano più a sostenere la fuga. La donna continuò la sua corsa, senza ascoltare il suo dolore, senza voltarsi a sentire i passi degli uomini alle calcagna. 

Era quasi giunta in cima, a pochi passi da lei vedeva abbassarsi i profili degli alberi, quando sentì una fitta lancinante trapassarle la spalla destra. Il colpo le fece perdere l’equilibrio, ma Polimede non si fermò e strinse ancora di più a sé suo figlio. Due passi e un altro colpo le trafisse la schiena. Istintivamente portò la mano ai reni e con le dita sfiorò il legno della freccia conficcata nella carne, sentendo il sangue caldo colarle lungo la veste. 
Le gambe cedettero prive di forza e la donna crollò sulle ginocchia. Sotto di lei la terra rimbombava dei passi di quelli che da inseguitori si erano trasformati in assassini. Il buio si fece improvvisamente più fitto. Il sapore metallico del sangue le riempì la bocca e un rivolo rosso le scese giù dalle labbra, scorrendo sul mento e bagnando con una goccia la fronte candida del neonato. Polimede guardò il suo bambino e, in un estremo impulso materno, lo pulì con un dito. “Perdonami, piccolo mio. Perdonami, Esone.” 
Tutto era ogni istante più sfocato, i rumori si fecero ovattati, lontani. I versetti di suo figlio che sembravano chiamarla, le urla di vittoria degli inseguitori, persino il calpestio di zoccoli davanti a sé. Di certo uno degli inseguitori veniva a darle il colpo di grazia.
Polimede sollevò lo sguardo annebbiato, pronta a ricevere la morte. Ma si accorse che invece di alzare la mano su di lei, il cavaliere gliela tendeva. Voleva aiutarla? Che cosa le stava dicendo? Tutto era confuso, le sue parole si perdevano nel vociare degli scagnozzi di Pelias e Polimede non riusciva neanche a distinguerne i lineamenti. Vedeva soltanto due profondi occhi azzurri, che in un certo modo rischiaravano l’oscurità che incombeva su di lei. Una strana sensazione di pace la pervase. Seguendo quella sensazione, la donna distese le braccia, non per aggrapparsi alla mano del cavaliere, ma per adagiarvi suo figlio. 
«Si chiama Iason.», sussurrò. Poi si accasciò inerte. Le ultime cose che la regina udì furono il galoppo del cavaliere che si allontanava veloce e le maledizioni lanciategli dietro dai suoi assassini. 

Sentì dita violente afferrarla per i capelli, poi più nulla.

domenica 26 ottobre 2014

Tradimento di sangue (1)

Il corpo senza vita di Esone giaceva immobile in una pozza rossa, che andava espandendosi sotto il flusso continuo dello squarcio aperto nella gola: un colpo di grazia inferto dalla misericordia degli arcieri dopo avergli conficcato due frecce tra le spalle. Il re di Iolkòs non si era mai voltato di fronte al nemico, non era mai fuggito. Neanche allora, neppure di fronte agli assassini che avevano profanato il suo talamo. Eppure aveva dovuto esporre la schiena alla morte: a lui era destinata una sola freccia, l’altra era per sua moglie. Colto nella quiete del suo riposo, il re non aveva altre armi per proteggere la sua regina, se non il proprio corpo. In un ultimo abbraccio, aveva accolto entrambi i dardi, facendosi scudo per la sua sposa, mentre le urla di lei richiamavano le guardie. 
«Salva il bambino.», erano state le ultime parole del re. Poi il bagliore di una lama, uno schizzo di sangue caldo, e la regina Polimede aveva visto il suo sposo crollare ai suoi piedi, come un sacco vuoto. Solo in quel momento i due sicari si accorsero del fagotto che la donna stringeva tra le braccia: piangeva, protestando per il trambusto che l’aveva svegliato.
Ancora impietrita, gli occhi velati di lacrime, la regina guardò gli assassini avventarsi su di lei, attendendo inerme la morte. Il rumore metallico di piedi ferrati sul pavimento della camera, alle spalle dei sicari, la riscosse da quel disperato torpore. Le guardie erano giunte troppo tardi per salvare il re, ma nel momento in cui si avventarono sugli assassini, diedero a Polimede l’occasione di fuggire. Una volta fuori dalla stanza, la donna si ritrovò nel caos più assoluto.

Tutto il palazzo riecheggiava delle urla di servi, ancelle e soldati, trucidati senza pietà nel cuore della notte da stranieri in preda a furore omicida. Rivestiti di rozze armature, tutte diverse e molte mal ridotte, gli invasori squarciavano e trafiggevano senza tregua, impugnando chi spade arrugginite, chi martelli e asce. Un fumo denso riempiva sale e corridoi, esalando da tende, arazzi e persino uomini in fiamme. In quella nebbia infernale la regina riuscì a distinguere la sagoma di un uomo, ritto davanti alle porte spalancate del palazzo: guardava imperturbabile quello spettacolo di distruzione e sembrava quasi goderne. Che fosse lui l’artefice di quell'insensato massacro? Polimede esitò, nel tentativo di riconoscerne il volto, ma il fumo si faceva sempre più denso e se avesse aspettato ancora, avrebbe perso ogni possibilità di fuga. 
Coprì la testa del bambino con la sua coperta e corse via, in cerca di un rifugio, senza saper bene dove cercarlo. Correva tra i corridoi, urtando serve in fuga, che urlavano come vitelli sgozzati, e scavalcando cadaveri di soldati mutilati, maschere di sangue e carne a brandelli. Il fumo la accecava, le riempiva la bocca del suo acre sapore e i polmoni di fuliggine. Guidata solo dal suo istinto e dal suo udito, la regina si spinse nelle zone più silenziose del palazzo, lontane dalle grida di vittime e assassini. A poco a poco si accorse che la luce sinistra degli incendi si faceva più fioca e il fumo si diradava, finché non si ritrovò nell’ala del palazzo riservata alle cucine. Allora, come un lampo, un pensiero, un vago ricordo le venne in mente, dandole forse un’ultima speranza di salvezza. Cercò di ignorare i cadaveri che le intralciavano la strada e imboccò un corridoio laterale, alla fine del quale trovò la piccola porta di cui si era ricordata. La aprì ed entrò in una stanza buia e fredda: il magazzino. 

C’era silenzio, umidità e un vago odore di vino e granaglie. Polimede si prese un istante per asciugarsi gli occhi e a liberarsi i polmoni e la gola dal fumo. Scoprì il bambino, per permettere anche a lui di prendere una boccata di aria pulita. Il piccolo diede un colpo di tosse e guardò sua madre con grandi, languidi occhi neri. Gli occhi di suo padre. Polimede sentì tornare la voglia di piangere, ma si trattenne. Iniziò a camminare per il magazzino, tra anfore alte la metà di lei e sacchi polverosi di farina. Dall'altra parte della stanza doveva esserci una porta che comunicava direttamente con l’esterno: gli schiavi la usavano per portare dentro le scorte di cibo e vino, senza dover trasportare le merci dall'entrata principale attraverso tutto il palazzo. 
La regina si inoltrò tra gli scaffali pieni di utensili, erbe e ampolle che mischiavano i loro odori in un indefinito effluvio stantio, fino a che non trovò anche la seconda porta. I battenti erano completamente scardinati. Impronte di fango e zolle d'erba riempivano il pavimento: gli invasori dovevano essersi introdotti da lì, forzando la serratura...O forse qualcuno li aveva fatti entrare. A quel pensiero Polimede sentì lo stomaco accartocciarsi, ma non c’era tempo per le congetture. 
Stringendo a sé il bambino, si avvicinò all’uscita con cautela. Sentiva il cuore batterle nel petto, così forte da farle quasi male, per il terrore che qualcuno fosse rimasto fuori a sorvegliare l’ingresso. Con il fiato corto, sbirciò da dietro lo stipite e poté tirare un sospiro di sollievo: la via sembrava libera. 

La regina fece un passo sulla terra nuda, ancora piena di diffidenza, tutti i sensi all'erta, attenta ad ogni ombra, ad ogni movimento sospetto. Avanzò un poco, lentamente, nell'aria fredda della notte, illuminata dalla luce della luna piena. La terra umida attutiva il rumore dei suoi passi e tutto era così tranquillo, che a poco a poco la regina cominciava a ritrovare sicurezza.
Una sensazione di breve durata. All'improvviso Polimede fu scossa da un frastuono di passi veloci, ordini e imprecazioni, proveniente dall'entrata del magazzino, dietro di lei: 
«Deve essere passata di qua!».
«Maledetti quei cani idioti che se la sono fatta scappare!».
«Come si fa a farsi sfuggire una femmina con un poppante?!».
Come un cervo braccato, Polimede cominciò a correre per la radura. Avvolse ancora di più il suo bambino tra le braccia, nel tentativo di contenere i suoi vagiti. Correva a perdifiato, senza guardarsi indietro, sebbene sentisse che i suoi inseguitori non erano lontani. 
«Eccola!», gridò uno, indicandola.
«Prendetela! – sbraitò un altro – O Pelias vorrà anche le nostre di teste!».
“Pelias”. All’udire quel nome pronunciato da simili criminali, la regina sentì quasi cederle le gambe.

domenica 12 ottobre 2014

Frammenti di tela (2)

La regina si alzò, appoggiandosi allo schienale del trono, e andò incontro alla donna con la testa china e i palmi volti al cielo in segno di saluto. «Venerabile Madre Altea, ti ringrazio di aver risposto alla mia chiamata nel cuore della notte. Ho bisogno dei tuoi saggi consigli.».
La sacerdotessa ricambiò il saluto di Idia con lo stesso gesto. «Che gli dei benedicano te e i tuoi figli, mia regina. Parla pure. Farò tutto ciò che è in mio potere per aiutarti.».
Con un rapido gesto della mano, Idia congedò Thalia, che attendeva in silenzio all’ombra della statua di Zeus, padre degli Olimpi. Quando la ragazza uscì dal megaron, la regina tornò a sedersi sul trono, invitando la sacerdotessa a seguirla e a sedersi accanto a lei su uno dei seggi più piccoli, quelli destinati ai familiari del re. Altea esitò, senza nascondere un certo imbarazzo: a nessuno era concesso sedere lì all’infuori della famiglia reale. Un cenno di Idia, però, bastò a vincere ogni remora e le due donne sedettero l’una accanto all’altra.
La regina guardò negli occhi la sacerdotessa: benché i suoi tratti fossero appena rischiarati dalla fioca luce notturna, Idia riusciva a scorgere in quei contorni la serenità di cui aveva bisogno, per placare l’ansia che la opprimeva. Guardando quei lineamenti così calmi, privi di qualsiasi turbamento, nonostante l’inattesa e improvvisa veglia notturna, Idia si sentiva già meglio, al sicuro. Pensò di essere stata una sciocca ad importunare quella donna in piena notte solo per un incubo, ma a quel punto non poteva certo dirle di tornare indietro. Inoltre non pensava di poter ignorare ancora le sue visioni: erano diverse, troppo diverse dalle semplici fantasie portate da un pasto pesante o dalle preoccupazioni della giornata. Le immagini erano così reali che Idia avrebbe quasi potuto toccarle. 
«Venerabile Madre – riprese, allora, la regina – ho interrotto così bruscamente il tuo riposo, perché solo tu puoi porre fine ai terrori che da tre lune ormai invadono le mie notti. Temo che gli dei vogliano parlarmi, ma non riesco a comprendere ciò che dicono. Le immagini che vedo sono sempre le stesse, ma ogni volta si fanno più spaventose. Ogni volta si aggiunge un particolare, che le rende più reali, come se le avessi davanti agli occhi, come se…».
Un calcio del bambino interruppe la crescente agitazione di Idia, costringendola a fermarsi in una smorfia di dolore. 
«Calmati, mia regina - Altea intervenne, posando una mano su quella di Idia, con fare materno - Comincia a raccontarmi fin dal principio e in ogni particolare le tue visioni. Sta’ tranquilla, sei al sicuro: la dea Selene ci benedice con la sua luna piena. Niente può farti del male. Parla, mia signora.». La sua voce aveva lo stesso suono rasserenante del mare che accarezza la sabbia con le sue onde nelle calde notti estive.
Idia si abbandonò a quel suono e tirò un paio di respiri profondi, attendendo che il dolore al ventre passasse. Poi, continuando a tenere la mano della sacerdotessa, chiuse gli occhi. In un istante i suoi incubi le apparvero di nuovo davanti, come gli affreschi che adornavano il palazzo.
«Sono cominciate due mesi fa. Anche allora c’era la luna piena. La prima volta sognai il momento del parto: ero sdraiata sul mio letto, circondata dalle maie, che mi tenevano stretta e mi asciugavano il sudore dalla fronte e le lacrime dal viso. La nutrice stava davanti alle mie gambe, pronta a prendere il bambino. Io spingevo e urlavo di voler vedere mio figlio. Alla fine la maia non mi porgeva un neonato…ma un fiore, una rosa rossa bellissima, con due boccioli dai petali turgidi. Io cominciavo a cullare quel fiore, che vedevo crescere tra le mie mani e diventare ogni istante più bello. A poco a poco, però, sul suo stelo iniziavano a spuntare spine aguzze, che stillavano un veleno sanguigno, imbrattandomi le mani, il seno, il letto. Poi mi guardavo intorno e mi accorgevo di non essere più nel mio talamo, ma su una barca, tra le onde di un mare in tempesta, e mentre reggevo tra le braccia il mio fiore, sopra di me tre fulmini squarciarono il cielo. Mi parve quasi di sentirne i tuoni, tanto che mi svegliai di soprassalto.». Idia tacque un istante e lanciò un’occhiata ad Altea, aspettandosi un commento, una reazione, o anche una semplice espressione del viso che tradisse ciò che pensava. Ma niente. Non una parola, non un cenno di preoccupazione. Soltanto un’impenetrabile espressione attenta e concentrata. Così la regina continuò.
«Dopo quella notte non ebbi più incubi, né sogni. Dormii sonni sereni…almeno fino al plenilunio successivo. Allora una seconda visione, più vivida della prima, venne a tormentarmi. Vidi che mi trovavo sulla stessa barca del sogno precedente, nello stesso mare, persino le onde erano identiche. Una specie di nave da guerra veniva verso di me, attraversando la tempesta senza difficoltà. Un grande occhio dipinto sulla sua fiancata scrutava costantemente il fondo del mare e gli scogli su cui si infrangevano le onde: sembrava quasi che la nave fosse viva e che avanzasse di propria volontà. Si fermava accanto alla mia barca e un uomo, anzi, un guerriero, mi raggiungeva. Indossava un’armatura, ma non aveva armi con sé. Notai che aveva un solo sandalo ai piedi. Sembrava venire in pace, mi tendeva persino la mano, come a volermi salvare dalla tempesta. Ma appena mi avvicinai a lui, mi strappò via dalle mani il fiore che avevo appena partorito, stringendolo nel suo pugno. Io urlavo, tentavo di colpirlo, ma era come colpire una nuvola di fumo dalle sembianze umane. Intanto vedevo il fiore cambiare tra le dita del guerriero: uno dei due boccioli si trasformò in una serpe, che avvolse le sue spire attorno all’altro fiore, facendone a brandelli i petali e lo stelo con i suoi denti aguzzi. Finito il suo pasto feroce, la serpe si volse verso di me, soffiando e sibilando. Sentii quasi il suo viscido corpo strisciarmi sulle gambe, tanto che mi svegliai con la sensazione di trovarmelo addosso.». Ancora una volta Idia si interruppe, per guardare con apprensione mista a curiosità la sacerdotessa. Ma questa continuava ad ascoltare immobile, con lo sguardo perso nelle oscure profondità del megaron, seguendo chissà quale filo di pensieri. 
Percepì lo sguardo di Idia su di lei solo quando si accorse del suo silenzio. «Ti prego, mia regina, continua a raccontare. Non posso dirti ciò che penso, finché non avrò conosciuto tutti i particolari delle tue visioni. Se non sbaglio, hai avuto una terza visione stanotte, per questo mi hai mandato a chiamare…».
Idia sospirò. «Non sbagli, Venerabile Madre.». Un brivido le corse lungo la schiena, propagandosi poi per tutto il corpo fino alla punta delle dita. Dovette fare un ultimo sforzo di volontà per poter riprendere. «Stanotte le due visioni precedenti si sono unite in un unico, tremendo incubo. Ho sognato di nuovo il parto, il fiore, la tempesta e il guerriero. Stavolta ho visto che dopo aver dato vita al serpente, il soldato me lo restituiva, porgendomelo come se fosse un neonato. Ma nel momento in cui lo prendevo tra le braccia, lui spariva, la nave si allontanava e il mare tornava piatto e calmo. Abbassai lo sguardo e vidi che la serpe tentava di attaccarsi al mio seno, per nutrirsi. Inorridita, la allontanai da me e la gettai in mare…e a quel punto…». La regina scoppiò in lacrime, sopraffatta dall’orrore dei ricordi tanto quanto dalla vergogna che qualcuno li stesse ascoltando. Eppure Altea non muoveva un solo muscolo.
 «Continua, mia signora.», la esortò con fermezza. 
Idia tentò di ricomporsi, passandosi le dita tra i lunghi capelli castani, che le ricadevano scomposti sul petto. «Dopo aver gettato in mare la serpe, vidi il suo corpo agitarsi e contorcersi, facendo ribollire l’acqua. Poi le sue spire tremanti cominciavano a riversare grumi di sangue, fino a tingere tutto il mare di rosso. Alla fine, mio padre Oceano e mia madre Teti emergevano dalle onde, ricoperti da capo a piedi di quella cruenta melma. Piangevano, tendevano le mani verso di me, guardandomi con ribrezzo, come se fossi io la causa di tutto quell’orrore.». A quel pensiero Idia non riuscì a dire altro e, scossa dai singhiozzi, si abbandonò al pianto, quasi dimenticandosi della presenza di Altea. 

Se la sacerdotessa provò stupore o ribrezzo a sentire il racconto di quelle visioni, di certo non lo diede a vedere. Appoggiandosi al suo bastone d’ebano, si alzò, lasciò che la regina esaurisse le sue lacrime seduta sul trono e si avvicinò alla vasca nel centro della sala. Stette a guardare per qualche momento lo specchio d’acqua, come per cercare nelle sue profondità le parole per dare alla regina le risposte che voleva. Il riverbero della luna si faceva sempre più tenue, segno che la notte stava per giungere al suo termine. 
“Visioni oscure per chiari messaggi.”, pensò Altea. L’oniromanzia non era mai stata tra le sue arti profetiche preferite: l’interpretazione dei sogni è ancora più incerta e insidiosa della lettura delle viscere animali. Eppure gli incubi della regina non lasciavano adito a molte interpretazioni. E Altea avrebbe volentieri evitato di esprimerle. Ma come avrebbe potuto rivelare una simile verità? Avrebbe davvero schiacciato il cuore di una donna alle soglie del parto con un macigno del genere? Senza contare che quella donna era la regina di Colchide, nonché la futura madre di un erede tanto agognato dal re…almeno, stando a quanto sostenevano gli indovini. 
Già…gli indovini: ciarlatani corrotti, pronti a riversare sul re Eeta valanghe di melliflue menzogne, pur di guadagnarsi il suo favore. Lei non era come loro. Lei, la Sacerdotessa di Hera, sapeva bene che mentire o tacere su segni divini così chiari sarebbe stato un sacrilegio e un affronto a tutto ciò che lei rappresentava. Ma parlare, rivelare le sue interpretazioni a cosa avrebbe portato? Di certo la casa di Eeta sarebbe caduta in rovina e con essa tutta la città. O peggio, se le sue interpretazioni fossero sbagliate? Avrebbe gettato una maledizione su quella donna e la sua famiglia per nulla! Sì, magari si sbagliava…

«Venerabile Madre, parla, ti prego.». La voce piena di apprensione di Idia spezzò la trama dei pensieri della sacerdotessa. Altea emise un sospiro, unico sfogo alla sua lotta interiore. La regina la guardava con gli occhi ancora rossi di pianto e un’aria stremata. «Dimmi la verità.», supplicò. 
Altea rivolse uno sguardo di tenerezza al ventre prominente della regina e tornò da lei. «La verità non è qualcosa che i mortali possono leggere nei propri sogni, mia signora.», rispose con l’espressione più rassicurante che riuscì a trovare. «Essi non sono altro che fili sfuggiti alla grande tela della Vita tessuta dalle Moire: fuori dalla tela, separati dagli altri fili, il loro significato rischia di essere corrotto dall’imperfetta mente mortale, che vi trova vane speranze nel dolore e inutili angosce nella felicità.». Altea si avvicinò a Idia e di nuovo le posò una mano sulla spalla. «Le immagini che hai visto, mia regina, sono certamente orribili e inquietanti, ma non vi è certezza di un loro significato maligno. Perciò placa la tua mente ed interpreta i tuoi sogni come un semplice avvertimento del dolore che proverai al momento del parto. Lo hai già vissuto per la tua primogenita, Calcìope, ma tra qualche tempo dovrai affrontare una battaglia ancora più grande e dolorosa, se, come dicono gli indovini, davvero porti in grembo l’erede di Eeta.». Altea spostò la mano sul ventre di Idia, come a benedire il nascituro.
«Dici che non vi è certezza di un significato maligno – riprese la regina – Ma io ho bisogno della certezza che non lo sia! Se davvero questi sogni predicono il mio dolore, perché ho visto i miei genitori puntare le loro mani insanguinate verso di me? Che cosa significano il serpente, il guerriero con un solo sandalo, la tempesta?».
Un impercettibile brivido scosse Altea. «Le immagini che hai visto possono avere molteplici significati. Il serpente talvolta indica insidie, talvolta è l’incarnazione stessa del divino Apollo.»
Idia scuoteva la testa confusa, gli occhi languidi che continuavano a contemplare i suoi ricordi.
Altea continuò nel tentativo di confortarla. «Tu discendi da due potenti divinità marine, mia signora: un privilegio gravoso, per i sacrifici e gli oneri che comporta. In quanto dèi, i tuoi genitori hanno il potere di metterti in guardia riguardo al peso delle responsabilità che porti, come madre e come regina. Credo vogliano dirti di prenderti molta cura di tuo figlio, proteggerlo dalla corruzione del mondo, perché cresca nella rettitudine e nella nobiltà della tua stirpe e sia destinato a grandi cose.». Mentre parlava, la sacerdotessa condusse pian piano la regina verso la vasca d’acqua, perché i primi raggi dell’alba, che filtravano ormai del soffitto, le riempissero gli occhi e il cuore di un nuovo calore, di nuove speranze. Idia si lasciava guidare, sentendo le ombre della sua mente dissiparsi insieme alla notte nella luce del sole nascente.
«Se può renderti la tua pace, mia signora – concluse la sacerdotessa – consulterò il sacro fuoco di Hera, nella speranza che mi conceda un responso ancora più chiaro riguardo alle tue visioni.».
Idia chiuse di nuovo gli occhi, ma stavolta riuscì ad accennare un sorriso, abbandonandosi al tenue tepore dell’aurora: «Ti ringrazio, Madre. Le tue parole sono un balsamo per la mia anima.». Poi si voltò verso Altea e, chinando il capo, la salutò: «Che gli dei ti proteggano, Venerabile Madre. Ti ringrazio di cuore per il tuo aiuto.».
«La benedizione di Hera scenda su di te e sulla tua casa, mia regina.», rispose Altea con lo stesso gesto. Si congedò e, voltandosi, uscì dal megaron e dal palazzo reale, lasciando Idia nella sua fiduciosa serenità. 

La sacerdotessa si immerse nella fredda luce del mattino, mentre in lontananza il canto stridulo di un gallo risvegliava gli abitanti di Kolkha. Scese la scalinata a passi lenti e ad ogni gradino sentiva le spalle oppresse da un peso sempre più grande. Attraversò il lussureggiante giardino davanti all’entrata del megaron, tra il profumo dell’erba primaverile e dei fiori aspersi di rugiada. Si incamminò poi tra i vicoli della città ancora in penombra, in direzione del tempio, guardandosi intorno smarrita, persa nel vortice di pensieri che le sconvolgeva la mente. Il rimorso per aver mentito alla regina si mescolava alla vergogna per la sua empietà ed alla paura delle conseguenze a cui i suoi falsi responsi avrebbero portato. Stava quasi per tornare sui suoi passi e svelare i suoi veri pensieri alla regina Idia, quando le tornarono in mente tutti i dubbi che poco prima l’avevano frenata. 
Quale “verità” avrebbe dovuto rivelare? Quelle visioni certamente nascondevano un messaggio, ma era davvero quello che lei credeva? Aveva la sensazione che qualsiasi risposta avesse dato alla regina, avrebbe comunque significato la rovina, aprendo la strada ad una maledizione senza fine. Ancora una volta si chiese se la sua interpretazione non potesse essere sbagliata, o forse se lo augurò soltanto. Probabilmente la soluzione stava nella promessa che aveva fatto alla regina.
Continuava a camminare con lo sguardo basso, senza accorgersi del cane che le correva accanto, o della donna che si inchinava con riverenza al suo passaggio. 
“Grande Dea, ho bisogno del tuo aiuto”

domenica 28 settembre 2014

Frammenti di tela (1)

Il disco della luna piena si stagliava nel manto nero del cielo, illuminando con la sua luce lattiginosa la terra silenziosa sotto di sé. Non un fruscio, non un verso, neanche il lugubre richiamo della civetta a caccia nel buio. Tutto taceva immobile, nella quiete più profonda. I raggi dell’astro notturno accarezzavano i contorni del mondo, quasi a voler scacciare ogni pericolo e donare qualche ora di pace ai suoi abitanti. Una pace che solo alla regina Idia non era concessa.

Nel silenzio del suo talamo, la donna si contorceva tra le lenzuola, respirando affannosamente. Dormiva, ma lottava contro il sonno, per svegliarsi e porre fine alle visioni che la tormentavano. Non era la prima volta che si agitava tra sogni, o meglio, incubi talmente vividi, da costringerla a sbarrare gli occhi nel buio, nel vano tentativo di scacciarli. Idia cercò di penetrare l’oscurità che la circondava, spezzata solo da un pallido raggio di luna, che filtrava dalle grate della finestra in fondo alla stanza. Tentò di riportare i battiti del cuore e il respiro alla normalità, senza riuscire, però, a dissolvere quelle orrende immagini dalla sua mente. Aveva la fronte madida di sudore freddo. 
Si alzò sui gomiti e si mise a sedere, facendo molta fatica a causa del pancione: stava quasi per giungere il momento del parto. Aveva la sensazione che il bambino crescesse più in fretta e più grande del solito. Era alla sua seconda gravidanza, ma nonostante la sua nutrice sostenesse che, dopo la prima, le altre le sarebbero sembrate più facili, per Idia non era così. Le sembrava di ricordare che l’attesa del suo primogenito le avesse causato meno dolore e meno fatica. Certo, poi si era rivelato una femmina. 
Stavolta, invece, gli indovini erano convinti che le fatiche di quella nuova gravidanza fossero chiari segni della prossima nascita di un erede maschio, forte e degno del nome di suo padre: Eeta, re della Colchide. Nella speranza di rimediare alla delusione che aveva causato al marito con la nascita di Calcìope, loro prima figlia, la regina sopportava di buon grado tutti i dolori e i fastidi che il nascituro le dava e quasi se ne mostrava felice, per ciò che presagivano.
Erano ben altri i presagi che la inquietavano: tre pleniluni, tre visioni, sempre più spaventose e sempre più reali, indelebili anche alla luce del giorno. Il suo sonno non era mai stato tanto tormentato e per così tanto tempo.
Quella era la terza notte di angoscia, ed Idia se ne stava seduta sul letto, tenendosi il lenzuolo di lino stretto al petto con una mano e accarezzandosi il pancione con l’altra. Eeta al suo fianco dormiva ancora, dandole le spalle: non si era accorto di niente. La donna cominciò a prendere lenti e profondi respiri, finché a poco a poco i battiti si placarono e la mente tornò lucida e consapevole di ciò che la circondava. Eppure quelle macabre immagini non volevano lasciarla: Idia le vedeva ancora come se le avesse davanti. 
“Non può essere una coincidenza.”, pensò, scossa da un brivido. Si alzò, appoggiandosi ad uno sgabello, si avvolse in uno scialle di lana finemente ricamato e si diresse alla porta, cercando di non fare rumore. Quando suo marito prese a russare, ebbe un sussulto, ma lui continuò a dormire e lei uscì in punta di piedi. 
Una volta fuori dalla stanza, la regina cominciò a bisbigliare: «Thalia? Thalia?!». 
Una figura rannicchiata sul pavimento accanto all'uscio del talamo fremette a quel richiamo. Era l’ancella personale della regina, una ragazza sottile, dalla pelle ambrata e una folta chioma di ricci neri, figlia di due schiavi del palazzo, posta alla compagnia e agli ordini di Idia sin da quando aveva sei anni. Quella notte ne aveva quattordici.
Ad un nuovo richiamo della regina, Thalia si alzò di scatto, un po’ intontita dal sonno, ma pronta ad obbedire: da qualche mese la sua padrona soffriva di insonnia e agitazioni notturne, che ovviamente privavano del sonno anche lei, tanto che ormai ci si stava quasi abituando. Ma fino ad allora la regina non era mai uscita dalla sua stanza, e questo sorprese non poco la ragazza. «Comanda, padrona.», rispose, dritta in piedi, ma con lo sguardo basso. 
«Vai a chiamare la Grande Sacerdotessa al tempio di Hera. Porgile le mie scuse per aver disturbato il suo riposo, ma dille che ho urgentemente bisogno di parlarle. La attenderò nel megaron. Va’, corri!».
Dopo aver ricevuto la solita carezza sulle spalle, che interpretava sempre come un “per favore” o un “grazie”, Thalia corse fuori dal palazzo, dirigendosi, veloce e silenziosa come un gatto, tra le strade di Kolkha. La luce della luna piena le illuminava la via verso il tempio di Hera.

Anche Idia avrebbe voluto correre, tanta era l’agitazione che le mordeva la bocca dello stomaco. Ma il suo corpo appesantito dalla gravidanza non gliel'avrebbe permesso. Allora cominciò a incamminarsi tra i corridoi del palazzo, cercando di non barcollare. Gli echi dei suoi passi si perdevano tra le immense mura, dipinte con immagini di caccia e banchetti, e allarmavano per un breve istante le guardie di turno, che con uno scatto portavano la mano all'elsa della spada, solo per ritirarla immediatamente al passaggio della loro sovrana.

In pochi momenti Idia arrivò al megaron, la sala del trono, cuore pulsante del regno di Colchide. In tutta la regione non esisteva un edificio simile per grandezza e fattura. Eeta lo aveva fatto costruire subito dopo essere approdato in quella terra abitata da barbari, a ricordo dell’Ellade e di Kòrynthos, la città che lo aveva generato di là dal mare, lì dove il sole tramonta.
La regina entrò per una porta appena nascosta dietro lo scranno reale, immettendosi nella luce fredda del riflesso lunare sulle pareti meravigliosamente decorate della sala. Gli sgargianti colori sfoggiati alla luce del sole assumevano qualcosa di tetro nella notte e di ancora più sinistro sotto i raggi della luna. Il suo chiarore illuminava l’immensità del megaron, riversandosi come una cascata di pioggia argentata da un’apertura al centro del soffitto fin dentro una vasca d’acqua cristallina. Oltre la cortina di candida luce si stendevano le tre navate della sala, divise da due file di colonne di marmo bianco, imponenti e leggere allo stesso tempo. Ai fianchi della navata centrale si ergevano le statue dei Dodici Dei, che con i loro sguardi vuoti e imperiosi accompagnavano il cammino dei sudditi verso i piedi del trono. Idia non era certo un suddito, ma talvolta aveva come l’impressione che quegli occhi di pietra, nella loro totale immobilità, frugassero nella sua anima, facendola quasi sentire l’ultima degli schiavi. E in quella particolare notte la sensazione le sembrava più forte che mai.

Andò a sedersi sul trono del marito, obbedendo alle proteste di gambe e schiena: il tragitto dalla sua stanza, seppur breve, aveva quasi prosciugato le poche forze che il suo sonno inquieto le aveva lasciato. 
Attese lì, nella semioscurità, per un tempo che le sembrò interminabile, massaggiandosi ora le tempie, ora il pancione, e rievocando alla mente tutte le visioni che da due mesi tormentavano le sue notti. Avrebbe dovuto riferirle alla sacerdotessa, in ogni macabro dettaglio, in ogni ripugnante particolare, nella speranza che lei potesse trovare un senso a quelle immagini. 
Ma poi le visioni iniziarono a mescolarsi ai ricordi in una nebbia indistinta, in cui si perdevano i confini tra realtà e immaginazione: gli eventi più tristi della sua vita le tornarono alla memoria sfocati come incubi, mentre i sogni erano nitidi come se li avesse vissuti. Rivide la madre Teti abbracciarla commossa, nel giorno in cui venne data in sposa ad Eeta. Anche lei aveva pianto come una bambina quando fu strappata al suo abbraccio. Ricordò quando dovette lasciare la sua casa per seguire il suo sposo in oriente e raggiungere la dimora che aveva scelto per loro, lontano dalle sponde elleniche, in una terra abitata da barbari stranieri. Rammentò la brutale reazione di Eeta, dopo la nascita della sua amata Calcìope, rivivendo in un solo momento tutti gli attimi di terrore del suo matrimonio, fino a quella notte di incubi.

Stava quasi per ricadere nell’angoscia dei suoi pensieri, quando il ticchettio di passi affrettati sul pavimento la riportò alla realtà. Idia alzò la testa e vide davanti a sé una donna in età avanzata che percorreva la navata come se non fosse stata svegliata nel pieno della notte. I candidi capelli scarmigliati, che le ricadevano in disordine sulle spalle, e la semplice tunica bianca che indossava, legata da una sottile cintura dorata, la facevano somigliare ad uno spirito venuto dalle profondità dell’Ade. Come unico paramento, portava con sé un bastone d’ebano cesellato, con in cima incastonata una gemma d’ambra, pietra rara e preziosa, proveniente dalle regioni iperboree del nord. Si avvicinava al trono a grandi passi, mentre Thalia la seguiva da vicino, ansimando per la corsa.

Continua...

martedì 23 settembre 2014

Il viaggio ha inizio

Benvenuto, caro lettore

Prima di tutto, ti ringrazio per aver aperto il mio blog e aver deciso di accompagnarmi in questa mia avventura.

Mi presento. Mi chiamo Emilia, ho 26 anni e l’unica cosa che so per certo di me è che non potrei mai stare senza i miei libri. Vengo dalla bella e tormentata Palermo e dopo un ventennio trascorso nella sicurezza del mio nido, ho letteralmente preso il volo per Amsterdam. Al giorno d’oggi questa non è poi un’informazione così rilevante. La nostra è una generazione di viaggiatori e non conosco nessuno, almeno dei miei coetanei, che a un certo punto della sua vita non abbia anche solo pensato di uscire dal nido, per andare più o meno lontano…Il fatto è che io non ci avevo mai pensato. 

Il mio mondo è cambiato da un giorno all'altro, quasi senza che me ne accorgessi. Dal caldo siciliano sono passata al freddo olandese. Dal blu del mare al verde dei campi sterminati. Dagli accenti arabeschi del mio dialetto ai gutturali suoni del neerlandese. 

Perché ti racconto tutto questo? Perché se non avessi affrontato questo viaggio, probabilmente non avrei mai cominciato a scrivere, e tu adesso staresti a girarti i pollici davanti a Facebook senza sapere che blog aprire!

Scherzi a parte, il ricordo del momento in cui ho scritto le prime righe su un foglio è dolce e amaro allo stesso tempo. La storia che leggerai su questo blog è iniziata in una mattina grigia, silenziosa, e senza che lo programmassi. Iniziai a scrivere solo per non perdere me stessa, per dare un senso alle mie giornate e per conservare quanto avevo imparato in anni di letture e studi famelici. Adesso, ogni volta che prendo in mano la penna, ritrovo la stessa, adrenalinica sensazione di sollievo che ebbi il primo giorno.

Spero di riuscire a trasmettere questa sensazione anche a te, caro lettore. Il racconto che stai per leggere - e da cui il blog prende titolo - è ambientato nella Grecia della mitologia e in terre lontane che già tremila anni fa stuzzicavano le fantasie dei nostri antenati. 
Se vorrai, ogni due settimane, la domenica pomeriggio, potrai riaprire questo blog e tornare insieme a me nel mondo che mi ha salvato. 

Buona lettura!