domenica 28 settembre 2014

Frammenti di tela (1)

Il disco della luna piena si stagliava nel manto nero del cielo, illuminando con la sua luce lattiginosa la terra silenziosa sotto di sé. Non un fruscio, non un verso, neanche il lugubre richiamo della civetta a caccia nel buio. Tutto taceva immobile, nella quiete più profonda. I raggi dell’astro notturno accarezzavano i contorni del mondo, quasi a voler scacciare ogni pericolo e donare qualche ora di pace ai suoi abitanti. Una pace che solo alla regina Idia non era concessa.

Nel silenzio del suo talamo, la donna si contorceva tra le lenzuola, respirando affannosamente. Dormiva, ma lottava contro il sonno, per svegliarsi e porre fine alle visioni che la tormentavano. Non era la prima volta che si agitava tra sogni, o meglio, incubi talmente vividi, da costringerla a sbarrare gli occhi nel buio, nel vano tentativo di scacciarli. Idia cercò di penetrare l’oscurità che la circondava, spezzata solo da un pallido raggio di luna, che filtrava dalle grate della finestra in fondo alla stanza. Tentò di riportare i battiti del cuore e il respiro alla normalità, senza riuscire, però, a dissolvere quelle orrende immagini dalla sua mente. Aveva la fronte madida di sudore freddo. 
Si alzò sui gomiti e si mise a sedere, facendo molta fatica a causa del pancione: stava quasi per giungere il momento del parto. Aveva la sensazione che il bambino crescesse più in fretta e più grande del solito. Era alla sua seconda gravidanza, ma nonostante la sua nutrice sostenesse che, dopo la prima, le altre le sarebbero sembrate più facili, per Idia non era così. Le sembrava di ricordare che l’attesa del suo primogenito le avesse causato meno dolore e meno fatica. Certo, poi si era rivelato una femmina. 
Stavolta, invece, gli indovini erano convinti che le fatiche di quella nuova gravidanza fossero chiari segni della prossima nascita di un erede maschio, forte e degno del nome di suo padre: Eeta, re della Colchide. Nella speranza di rimediare alla delusione che aveva causato al marito con la nascita di Calcìope, loro prima figlia, la regina sopportava di buon grado tutti i dolori e i fastidi che il nascituro le dava e quasi se ne mostrava felice, per ciò che presagivano.
Erano ben altri i presagi che la inquietavano: tre pleniluni, tre visioni, sempre più spaventose e sempre più reali, indelebili anche alla luce del giorno. Il suo sonno non era mai stato tanto tormentato e per così tanto tempo.
Quella era la terza notte di angoscia, ed Idia se ne stava seduta sul letto, tenendosi il lenzuolo di lino stretto al petto con una mano e accarezzandosi il pancione con l’altra. Eeta al suo fianco dormiva ancora, dandole le spalle: non si era accorto di niente. La donna cominciò a prendere lenti e profondi respiri, finché a poco a poco i battiti si placarono e la mente tornò lucida e consapevole di ciò che la circondava. Eppure quelle macabre immagini non volevano lasciarla: Idia le vedeva ancora come se le avesse davanti. 
“Non può essere una coincidenza.”, pensò, scossa da un brivido. Si alzò, appoggiandosi ad uno sgabello, si avvolse in uno scialle di lana finemente ricamato e si diresse alla porta, cercando di non fare rumore. Quando suo marito prese a russare, ebbe un sussulto, ma lui continuò a dormire e lei uscì in punta di piedi. 
Una volta fuori dalla stanza, la regina cominciò a bisbigliare: «Thalia? Thalia?!». 
Una figura rannicchiata sul pavimento accanto all'uscio del talamo fremette a quel richiamo. Era l’ancella personale della regina, una ragazza sottile, dalla pelle ambrata e una folta chioma di ricci neri, figlia di due schiavi del palazzo, posta alla compagnia e agli ordini di Idia sin da quando aveva sei anni. Quella notte ne aveva quattordici.
Ad un nuovo richiamo della regina, Thalia si alzò di scatto, un po’ intontita dal sonno, ma pronta ad obbedire: da qualche mese la sua padrona soffriva di insonnia e agitazioni notturne, che ovviamente privavano del sonno anche lei, tanto che ormai ci si stava quasi abituando. Ma fino ad allora la regina non era mai uscita dalla sua stanza, e questo sorprese non poco la ragazza. «Comanda, padrona.», rispose, dritta in piedi, ma con lo sguardo basso. 
«Vai a chiamare la Grande Sacerdotessa al tempio di Hera. Porgile le mie scuse per aver disturbato il suo riposo, ma dille che ho urgentemente bisogno di parlarle. La attenderò nel megaron. Va’, corri!».
Dopo aver ricevuto la solita carezza sulle spalle, che interpretava sempre come un “per favore” o un “grazie”, Thalia corse fuori dal palazzo, dirigendosi, veloce e silenziosa come un gatto, tra le strade di Kolkha. La luce della luna piena le illuminava la via verso il tempio di Hera.

Anche Idia avrebbe voluto correre, tanta era l’agitazione che le mordeva la bocca dello stomaco. Ma il suo corpo appesantito dalla gravidanza non gliel'avrebbe permesso. Allora cominciò a incamminarsi tra i corridoi del palazzo, cercando di non barcollare. Gli echi dei suoi passi si perdevano tra le immense mura, dipinte con immagini di caccia e banchetti, e allarmavano per un breve istante le guardie di turno, che con uno scatto portavano la mano all'elsa della spada, solo per ritirarla immediatamente al passaggio della loro sovrana.

In pochi momenti Idia arrivò al megaron, la sala del trono, cuore pulsante del regno di Colchide. In tutta la regione non esisteva un edificio simile per grandezza e fattura. Eeta lo aveva fatto costruire subito dopo essere approdato in quella terra abitata da barbari, a ricordo dell’Ellade e di Kòrynthos, la città che lo aveva generato di là dal mare, lì dove il sole tramonta.
La regina entrò per una porta appena nascosta dietro lo scranno reale, immettendosi nella luce fredda del riflesso lunare sulle pareti meravigliosamente decorate della sala. Gli sgargianti colori sfoggiati alla luce del sole assumevano qualcosa di tetro nella notte e di ancora più sinistro sotto i raggi della luna. Il suo chiarore illuminava l’immensità del megaron, riversandosi come una cascata di pioggia argentata da un’apertura al centro del soffitto fin dentro una vasca d’acqua cristallina. Oltre la cortina di candida luce si stendevano le tre navate della sala, divise da due file di colonne di marmo bianco, imponenti e leggere allo stesso tempo. Ai fianchi della navata centrale si ergevano le statue dei Dodici Dei, che con i loro sguardi vuoti e imperiosi accompagnavano il cammino dei sudditi verso i piedi del trono. Idia non era certo un suddito, ma talvolta aveva come l’impressione che quegli occhi di pietra, nella loro totale immobilità, frugassero nella sua anima, facendola quasi sentire l’ultima degli schiavi. E in quella particolare notte la sensazione le sembrava più forte che mai.

Andò a sedersi sul trono del marito, obbedendo alle proteste di gambe e schiena: il tragitto dalla sua stanza, seppur breve, aveva quasi prosciugato le poche forze che il suo sonno inquieto le aveva lasciato. 
Attese lì, nella semioscurità, per un tempo che le sembrò interminabile, massaggiandosi ora le tempie, ora il pancione, e rievocando alla mente tutte le visioni che da due mesi tormentavano le sue notti. Avrebbe dovuto riferirle alla sacerdotessa, in ogni macabro dettaglio, in ogni ripugnante particolare, nella speranza che lei potesse trovare un senso a quelle immagini. 
Ma poi le visioni iniziarono a mescolarsi ai ricordi in una nebbia indistinta, in cui si perdevano i confini tra realtà e immaginazione: gli eventi più tristi della sua vita le tornarono alla memoria sfocati come incubi, mentre i sogni erano nitidi come se li avesse vissuti. Rivide la madre Teti abbracciarla commossa, nel giorno in cui venne data in sposa ad Eeta. Anche lei aveva pianto come una bambina quando fu strappata al suo abbraccio. Ricordò quando dovette lasciare la sua casa per seguire il suo sposo in oriente e raggiungere la dimora che aveva scelto per loro, lontano dalle sponde elleniche, in una terra abitata da barbari stranieri. Rammentò la brutale reazione di Eeta, dopo la nascita della sua amata Calcìope, rivivendo in un solo momento tutti gli attimi di terrore del suo matrimonio, fino a quella notte di incubi.

Stava quasi per ricadere nell’angoscia dei suoi pensieri, quando il ticchettio di passi affrettati sul pavimento la riportò alla realtà. Idia alzò la testa e vide davanti a sé una donna in età avanzata che percorreva la navata come se non fosse stata svegliata nel pieno della notte. I candidi capelli scarmigliati, che le ricadevano in disordine sulle spalle, e la semplice tunica bianca che indossava, legata da una sottile cintura dorata, la facevano somigliare ad uno spirito venuto dalle profondità dell’Ade. Come unico paramento, portava con sé un bastone d’ebano cesellato, con in cima incastonata una gemma d’ambra, pietra rara e preziosa, proveniente dalle regioni iperboree del nord. Si avvicinava al trono a grandi passi, mentre Thalia la seguiva da vicino, ansimando per la corsa.

Continua...

martedì 23 settembre 2014

Il viaggio ha inizio

Benvenuto, caro lettore

Prima di tutto, ti ringrazio per aver aperto il mio blog e aver deciso di accompagnarmi in questa mia avventura.

Mi presento. Mi chiamo Emilia, ho 26 anni e l’unica cosa che so per certo di me è che non potrei mai stare senza i miei libri. Vengo dalla bella e tormentata Palermo e dopo un ventennio trascorso nella sicurezza del mio nido, ho letteralmente preso il volo per Amsterdam. Al giorno d’oggi questa non è poi un’informazione così rilevante. La nostra è una generazione di viaggiatori e non conosco nessuno, almeno dei miei coetanei, che a un certo punto della sua vita non abbia anche solo pensato di uscire dal nido, per andare più o meno lontano…Il fatto è che io non ci avevo mai pensato. 

Il mio mondo è cambiato da un giorno all'altro, quasi senza che me ne accorgessi. Dal caldo siciliano sono passata al freddo olandese. Dal blu del mare al verde dei campi sterminati. Dagli accenti arabeschi del mio dialetto ai gutturali suoni del neerlandese. 

Perché ti racconto tutto questo? Perché se non avessi affrontato questo viaggio, probabilmente non avrei mai cominciato a scrivere, e tu adesso staresti a girarti i pollici davanti a Facebook senza sapere che blog aprire!

Scherzi a parte, il ricordo del momento in cui ho scritto le prime righe su un foglio è dolce e amaro allo stesso tempo. La storia che leggerai su questo blog è iniziata in una mattina grigia, silenziosa, e senza che lo programmassi. Iniziai a scrivere solo per non perdere me stessa, per dare un senso alle mie giornate e per conservare quanto avevo imparato in anni di letture e studi famelici. Adesso, ogni volta che prendo in mano la penna, ritrovo la stessa, adrenalinica sensazione di sollievo che ebbi il primo giorno.

Spero di riuscire a trasmettere questa sensazione anche a te, caro lettore. Il racconto che stai per leggere - e da cui il blog prende titolo - è ambientato nella Grecia della mitologia e in terre lontane che già tremila anni fa stuzzicavano le fantasie dei nostri antenati. 
Se vorrai, ogni due settimane, la domenica pomeriggio, potrai riaprire questo blog e tornare insieme a me nel mondo che mi ha salvato. 

Buona lettura!