domenica 9 novembre 2014

Tradimento di sangue (2)

Pelias, suo cognato, il fratello del suo sposo era dunque il responsabile? “Non è possibile!”. Un’indicibile stanchezza e una sconfinata disperazione le piombarono addosso. Polimede voleva fermarsi, arrendersi al destino che incombeva su di lei, farsi catturare soltanto per guardare negli occhi il traditore e riversare su di lui tutto il suo odio. Ma ad un grido del figlio, più acuto degli altri, la donna si riscosse. Scacciò la rabbia in un angolo della sua anima e, attingendo da essa nuova forza, riprese a correre. “Salva il bambino”. La voce del suo amato Esone le risuonava nella testa, le lacrime sgorgavano, ma la regina continuava a correre. Non doveva ascoltare il rumore di ferraglia dietro di lei. Doveva ignorare i latrati dei soldati sempre più vicini. Si guardava intorno in cerca di un riparo dalla luce rivelatrice della luna. 

Come in risposta alle sue tacite preghiere, dopo qualche istante dal buio davanti a lei emersero i contorni di una fitta distesa di alberi, che ricopriva le pendici di un colle. Un tempo i contadini vi andavano a fare rifornimento di legna per l’inverno ed i cacciatori a procurarsi la carne di qualche cinghiale di tanto in tanto. Ma da diversi anni nessuno aveva più osato mettervi piede, per via di certe storie su un mostro, un essere ibrido dagli occhi di ghiaccio, né uomo né bestia, che aveva infestato la foresta, scacciandone tutti gli animali. Un luogo maledetto di giorno e temuto di notte. 
Quel bosco tenebroso era l’unica speranza per Polimede. Con un ultimo scatto delle gambe, la donna riuscì a inoltrarsi nell’oscurità protettiva dei faggi frondosi, lasciandosi alle spalle le imprecazioni dei suoi inseguitori. Si insinuò fra tronchi e cespugli, si nascondeva come una lepre da una muta di cani, nel tentativo di far perdere le proprie tracce. Gli uomini, però, continuavano ad accanirsi sulla vegetazione senza sosta con asce e spade, per aprirsi la strada e scovare la loro preda. 
Polimede avanzava a tentoni su per la china del colle, nel buio più nero, cercando di orientarsi con i deboli raggi di luna che filtravano dai rami più alti. Continuava a ripetersi che, se fosse riuscita a valicare la cima, forse sarebbe riuscita a seminarli, forse si sarebbe salvata. Controllava ogni passo, ogni respiro, temendo che il minimo rumore potesse tradirla. Persino il bambino sembrava percepire il pericolo che lo circondava: non piangeva, né vagiva più. Se ne stava quieto, nascondendo la testa nel petto della madre, pieno di inconsapevole fiducia.
«Per Zeus! Dov’è finita quella scrofa?!», berciò uno dei soldati per la frustrazione.
La regina sentì così vicino quel grido, che incespicò per lo spavento: nella corsa mise un piede in fallo e cadde su un mucchietto di rami secchi. Nel silenzio della foresta, quel rumore di rami spezzati risuonò come uno schianto. 
«Di qua!», urlarono subito più soldati insieme, dirigendosi verso la fonte del rumore. 
Sentendosi stanata, Polimede si rialzò, non curante dei graffi che ormai le riempivano le caviglie e i polpacci, e riprese a correre, abbandonando ogni prudenza. Il fiato cominciava a venirle meno, mentre l’aria gelida della notte le bruciava i polmoni e i piedi nudi escoriati da sassi e schegge non riuscivano più a sostenere la fuga. La donna continuò la sua corsa, senza ascoltare il suo dolore, senza voltarsi a sentire i passi degli uomini alle calcagna. 

Era quasi giunta in cima, a pochi passi da lei vedeva abbassarsi i profili degli alberi, quando sentì una fitta lancinante trapassarle la spalla destra. Il colpo le fece perdere l’equilibrio, ma Polimede non si fermò e strinse ancora di più a sé suo figlio. Due passi e un altro colpo le trafisse la schiena. Istintivamente portò la mano ai reni e con le dita sfiorò il legno della freccia conficcata nella carne, sentendo il sangue caldo colarle lungo la veste. 
Le gambe cedettero prive di forza e la donna crollò sulle ginocchia. Sotto di lei la terra rimbombava dei passi di quelli che da inseguitori si erano trasformati in assassini. Il buio si fece improvvisamente più fitto. Il sapore metallico del sangue le riempì la bocca e un rivolo rosso le scese giù dalle labbra, scorrendo sul mento e bagnando con una goccia la fronte candida del neonato. Polimede guardò il suo bambino e, in un estremo impulso materno, lo pulì con un dito. “Perdonami, piccolo mio. Perdonami, Esone.” 
Tutto era ogni istante più sfocato, i rumori si fecero ovattati, lontani. I versetti di suo figlio che sembravano chiamarla, le urla di vittoria degli inseguitori, persino il calpestio di zoccoli davanti a sé. Di certo uno degli inseguitori veniva a darle il colpo di grazia.
Polimede sollevò lo sguardo annebbiato, pronta a ricevere la morte. Ma si accorse che invece di alzare la mano su di lei, il cavaliere gliela tendeva. Voleva aiutarla? Che cosa le stava dicendo? Tutto era confuso, le sue parole si perdevano nel vociare degli scagnozzi di Pelias e Polimede non riusciva neanche a distinguerne i lineamenti. Vedeva soltanto due profondi occhi azzurri, che in un certo modo rischiaravano l’oscurità che incombeva su di lei. Una strana sensazione di pace la pervase. Seguendo quella sensazione, la donna distese le braccia, non per aggrapparsi alla mano del cavaliere, ma per adagiarvi suo figlio. 
«Si chiama Iason.», sussurrò. Poi si accasciò inerte. Le ultime cose che la regina udì furono il galoppo del cavaliere che si allontanava veloce e le maledizioni lanciategli dietro dai suoi assassini. 

Sentì dita violente afferrarla per i capelli, poi più nulla.

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