domenica 23 novembre 2014

Voce di Dea

Volute di fumo odoroso esalavano da bracieri ardenti colmi d’incenso, riempiendo il soffitto del tempio di una foschia appena rischiarata dalle fiaccole attorno alla sacra effigie. La luce ondeggiante della loro fiamma sembrava dar vita ai duri contorni di pietra della divinità con giochi d’ombra sempre diversi. La scultura aveva forma di donna, magnifica e imponente nella sua regalità, con i capelli inanellati che le scendevano lungo il petto, sul capo un’alta corona, decorata nei minimi particolari. Con la mano destra reggeva un melograno, simbolo di fertilità, e nella sinistra, distesa lungo il fianco, una verghetta dipinta d’oro.
Ai suoi piedi ardeva un fuoco perenne in un braciere dorato più grande degli altri. Davanti alla sua luce vermiglia un agnello bianco, nato da pochi giorni, belava impaurito sotto la ferrea stretta di Altea. La sacerdotessa lo teneva bloccato con una mano sulla lastra di marmo dell’altare, mentre con l’altra stringeva un coltello dalla lama lucente e affilata. Sussurrava a fior di labbra parole indistinguibili, preghiere antiche, formule sacre in una lingua straniera, sconosciuta ai Colchi, sudditi di Eeta. Una novizia le stava accanto, in piedi e con il capo velato, per assisterla nel rito sacrificale. 

Concluse le formule, Altea appoggiò lentamente la lama sulla gola tremante dell’agnello, che al freddo tocco del metallo iniziò a belare più forte di prima. 
«O Grande Hera, Madre di tutti gli dei – intonò la sacerdotessa ad alta voce – Io ti offro questo sacrificio e imploro il tuo aiuto, o divina. Fa’ che questa carne e questo sangue siano doni a te graditi, ed esaudisci le mie preghiere.». I belati cessarono di colpo, mentre rivoli di sangue creavano venature vermiglie sul marmo. La novizia porse ad Altea un coltello più piccolo, con cui la sacerdotessa iniziò a sezionare ed eviscerare la vittima. Separò la carne dalla pelle e dalle ossa e la pose su un piatto d’argento, perché la novizia la gettasse nel fuoco. Immediatamente un fumo acre e denso si levò dal braciere, avvolgendo il viso bianco della statua di Hera. 
Una volta terminato il rito cruento, la novizia diede ad Altea una bacinella d’ottone piena d’acqua ed un telo candido, perché potesse ripulirsi dal sangue appena versato. Quando l’acqua si tinse tutta di rosso, la ragazza, senza fiatare, mise via la bacinella e consegnò ad Altea una tazza in terracotta, contenente un liquido opaco dall'odore dolciastro: un infuso di semi d’oppio e belladonna. La sacerdotessa congedò con un cenno della testa la sua assistente, che uscì, lasciandola in ginocchio davanti alla statua.
Altea inspirò profondamente e portò alle labbra la tazza, bevendone il liquido a piccoli sorsi. Quando finì, riprese le sue bisbigliate preghiere, volgendo il viso e le mani alla divinità, rilassando le spalle in un completo abbandono. L’agitazione che l’aveva colta, dopo essere uscita dal palazzo di Eeta, andava placandosi. L’immensità inviolabile del tempio le dava sempre un senso di protezione e sicurezza, e lei vi si immergeva, avvolta dai profumi degli incensi e degli oli sacri. Circondata dai colori sgargianti dei rilievi e delle statue, Altea si sentiva penetrare in un altro mondo, fatto di forza, splendore e immortalità. 

«Grande Hera, - riprese -, Sposa di Zeus, Madre e Regina dell’Olimpo, somma tra tutte le dee, vieni in mio soccorso. Illumina con la tua saggezza i miei pensieri. Districa i nodi della mia anima. Concedimi la conoscenza.».
Poi, con gli occhi chiusi, cominciò a intonare una cantilena, ripetendola incessantemente, finché ogni pensiero abbandonò la sua mente per lasciare il posto soltanto alle parole: «Gnomèn dòs moi, Theà, Bòopis Hèra.». Dammi la conoscenza, o Dea, Hera dagli occhi bovini. Parole di un popolo antico e lontano, conservate in quel tempio per onorare gli dei patri con la lingua da loro creata.
Cullata dalla litania, Altea si sentiva quasi sollevare. Separata dal suo corpo, vagava al di là delle mura di pietra ben levigata, più in alto delle colonne, oltre il cielo e le nuvole, nuotando nella luce abbagliante del sole. La bevanda sacra cominciava a fare effetto.

«Gnomèn dòs moi, Thea…».
L’azzurro marino del cielo.

«Gnomèn dòs moi, Thea…».
La persistente fragranza dell’incenso.

«Gnomèn dòs moi…».
Il dolce sapore dell’ambrosia, nettare divino.

«Gnomèn dòs…».

L’oceano di luce lasciò il posto a un turbinio di stelle e nel blu dell’infinito comparvero due grandi occhi, due sfere perfette, nere come la notte più profonda, languide come polle d’acqua. Una melodiosa voce di donna riecheggiava nelle eteree profondità. L’essenza stessa della femminilità avrebbe avuto quel suono. 

“Venerabile Altea, la tua mente vede chiaro e lontano. La tua volontà è forte e saggia. Ma gli occhi del fato sono più acuti e la volontà degli dei più forte di qualsiasi mortale. Il possente Prometeo tentò di penetrare la divina sapienza e ancora sconta la sua condanna. Se proverai a sfuggire al divino volere, la rovina si abbatterà inesorabile e spietata. Se lo asseconderai, come fa il giunco con l’onda del fiume, troverai la salvezza.”.

Immagini fumose danzavano alla musica di quella voce, come marionette guidati da fili invisibili. Un guerriero dall'armatura splendente marciava, pestando un piede coperto di bronzo, e poi l’altro, nudo ed escoriato. Ma l’uomo con un solo sandalo non si curava della scia di sangue che lasciava dietro di sé. E la scia diventava mare, le cui onde riportavano a galla cruenti stralci d’uomo: una gamba, poi un braccio, poi una mano. E il ribollire delle onde si trasformava in un calderone d’acqua schiumante, che tra grida e pianti avvolgeva le carni di un uomo in preda a convulsioni. La voce non era più musica, ma una risata potente, terribile, irrefrenabile.

Poi il silenzio. L’armonia di suoni e colori si spense insieme ai mostri danzanti ed Altea ripiombò nella luce soffusa del tempio. Le fiaccole si erano ormai quasi del tutto consumate ed i bracieri pieni di cenere emanavano soltanto esili linee fumose. Altea percepì il freddo del pavimento sul viso, le tempie pulsanti come tamburi, la bocca secca e gli arti intorpiditi: doveva essere rimasta sdraiata lì per ore. 
Non appena riprese conoscenza, la sacerdotessa puntò le mani per terra, tentando di rialzarsi tra le proteste di muscoli e giunture. Barcollò sulle gambe incerte, reggendosi la testa come fosse un macigno. Nelle orecchie le ronzavano ancora strascichi di voci indefinite, le cui parole erano però ben chiare nella mente, come scolpite nel bronzo. 
Altea sentì il bisogno del suo bastone d’ebano e con il suo sostegno si avviò all’uscita del tempio a passi lenti. Sulla soglia, superata l’ultima colonna, si voltò nuovamente a guardare la statua della dea, silenziosa e immobile, bellissima e terribile.

“Ho sentito la tua ira, Divina Signora. Ho visto il baratro a cui conduce. Che tu possa placarti, che tu possa ritrovare la pietà nel tuo cuore immortale.”. Per un istante Altea desiderò poter credere che si fosse trattato solo di un sogno, un incubo insignificante. Ma era un lusso che non poteva permettersi. Non era la prima volta che udiva la voce della sua dea.
La donna uscì, respirando a pieni polmoni, perché l’aria infuocata del tramonto scacciasse la fuliggine dai suoi pensieri. Si raccolse la chioma canuta in una crocchia disordinata e prese il sentiero scosceso, che dal versante occidentale del colle, dove si trovava il tempio, conduceva alla spiaggia. 

Ad ogni passo, Altea sentiva riprendere il controllo del proprio corpo. Prima le gambe, poi la schiena, le braccia e le mani. Le guance a poco a poco riprendevano calore e la bocca non era più impastata. La testa però era ancora così pesante…Il cranio le rimbombava come se uno scalpellino glielo stesse martellando dall'interno. Solo un pensiero le era chiaro: “come fa il giunco con l’onda del fiume”

“Quanto sangue, quanto dolore porterà con sé questo fiume? Che cosa ha scatenato la tua furia, oh Divina?”. La discesa verso il mare era ripida, la strada inasprita da sterpaglie e sassi. Altea traballava sul suo bastone e improvvisamente si sentì vecchia e stanca e sola. “Come puoi chiedermi di stare a guardare mentre tutto attorno a me crolla. I tuoi figli, uomini e donne devoti a te e alla tua stirpe celeste…tutti distrutti. Perché?” 

- Non ti è dato sapere. – ripeteva la voce nella sua testa, inflessibile come la lama di un coltello. 
Altea scuoteva la testa. Per la prima volta avrebbe voluto venir meno ai suoi voti, correre dalla regina e rivelarle la verità, aiutarla a scappare.
- Scappare per dove? Non sei poi così saggia, sacerdotessa, se credi che si possa sfuggire al proprio destino! – La derise la voce. 
Altea udì ancora quella risata terribile e non capiva se era reale o semplice strascico della bevanda all'oppio. 

Pregò con tutto il cuore che almeno anime innocenti non dovessero soffrire punizioni riservate ad altri. La sua mente andò a Idia, una regina tanto dolce quanto umile, e ai suoi figli, Calciope, così simile a lei, e i pargoli che ancora portava in grembo. Il destino lasciava il suo marchio su vite ancora non nate.
- Ma tu sei in grado di riconoscere l’innocenza?-. La voce della dea risuonò un’ultima volta nelle orecchie di Altea, come se le stesse accanto. La sacerdotessa non rispose. Un ultimo passo oltre le sterpaglie e una manciata di sabbia calda le avvolse i sandali. Quella sensazione le dava sempre un piacevole brivido alla schiena.

“L’intreccio dei tuoi fili è troppo intricato e oscuro da comprendere, divina Hera.”, ammise Altea. “Ciò che hai deciso si compierà come desideri. Ma tu, che mi hai creato e consacrato, sai già quale sarà il mio ruolo.”. La voce nella sua testa rimase in silenzio. 

La placida danza delle onde, il profumo della salsedine, il richiamo dei gabbiani: era così che Altea immaginava la pace dei campi elisi. L’infinita distesa del mare color del vino, che accompagna lo sguardo verso l’orizzonte, lontano dalla terra piena di passioni, fino a congiungersi con la tersa immensità del cielo. “Non sono mai stata un giunco.”

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