domenica 13 dicembre 2015

La foresta dei morti

Per molto tempo, solo il rumore della sterpaglia scricchiolante venne a rompere il silenzio che era calato sui tre viandanti. Il contadino, ad un certo punto, decise di dare inizio a un fischiettio alquanto irritante, che tuttavia non sembrava infastidire Thalia. Per un attimo, Altea ebbe il sospetto che si fosse addormentata con la faccia affondata tra i gomiti. Finché non la sentì tirar su forte col naso.

«Di solito gli schiavi liberati festeggiano, cantano, ridono. Non ne ho conosciuti molti, a dire il vero, ma immagino che nessuno apparirebbe così disperato.» 

Thalia singhiozzò ancora. E ancora. Al terzo singhiozzo, Altea si alzò, instabile sul carretto in movimento e, scavalcando il sedile, andò a raggiungere la ragazza nel vano posteriore.

«Sono qui per aiutarti, Thalia. Ma se non parli, non c'é modo che io ci riesca.»

A poco a poco, lentamente, la massa di ricci neri fece spazio a un viso rosso e rigato di lacrime. «Liberami, mia signora.»

«Sei già libera.»

«Da questo!» Thalia si artigliò la pancia con una specie di ringhio. «É il solo aiuto che voglio.»

"La ragazza é più tenace di quanto non appaia." pensò Altea. «Non ci hai già provato da sola?» Con gli occhi indicò le ferite alle braccia, che prontamente Thalia celò, serrandole contro lo stomaco. Davanti alla regina, Altea aveva finto di non notarle, ma adesso era inutile continuare a tacere. Se doveva occuparsi di quella ragazza, dovevano fidarsi l'una dell'altra. Ciò significava che la sacerdotessa doveva sapere di cosa la sua nuova protetta era capace.

Ma Thalia si chiuse di nuovo nel suo mutismo e non rispose. Evidentemente non era ancora arrivato il momento delle confidenze.

Altea appoggiò la schiena contro le pareti del carretto, si riordinò la crocchia di capelli grigi e scacciò una mosca dal suo velo immacolato. «Tu credi agli dei, Thalia?»

«Quali dei?». C'era un sarcastico astio nel tono della risposta.

«Quelli di cui poi udire la voce. Tutti possono sentire la voce degli dei, anche se i più non sanno ascoltarla. Non la riconoscono e la ignorano come farebbero con fastidioso ronzio di una mosca. Tu sai di cosa parlo, non é vero?»

«Io sento solo demoni, mia signora, e dei più mostruosi.». Di nuovo gli occhi di Thalia si fecero lucidi.

Altea invece sorrise, per nulla impressionata dai toni macabri della ragazza. «Oh, ai demoni piace giocare con le menti umane. Rabbia, Paura, Vendetta, sono figlie delle tenebre, le puttane di Ares il Distruttore, e urlano per sovrastare le voci dei Celesti. Ma é dietro questi strepiti che troverai la verità». La sacerdotessa si avvicinò a Thalia, tanto da poter fissare lo sguardo nel suo. «Perché sei arrabbiata? Di che cosa hai paura? Di chi vuoi vendicarti?»

Thalia guardò in basso. «Per colpa di questo bambino ho perso tutto.»

C'era ancora tanto che non diceva, ma non aveva importanza. «Sbagliato. É grazie a questo bambino che hai guadagnato tutto. La vita, la libertà ti sono state garantite grazie a questo bambino.»

Adesso Thalia la guardava come se avesse davanti una pazza. Non era la prima volta che le capitava, ma Altea non demorse. «Ancora non capisci, ragazza mia? Perché credi che i demoni ti riempiano la testa di pensieri nefasti, se non per spingerti a liberarti di un dono? É questo ciò che fanno: rendono gli uomini ciechi alle opportunità, li portano a disprezzare i doni che hanno e quando non é rimasto più niente da togliere, si impossessano della loro anima e li controllano come marionette.»

«Perché mi dici questo? Tu non mi conosci. Non sai niente di me!»

«So quanto basta.». Altea prese Thalia per un polso e la costrinse a stendere il braccio e a mostrare le ferite. «Qualunque altra donna nelle tue condizioni sarebbe morta, o almeno avrebbe perso la sua creatura...»

«Non é una mia creatura!», ribatté Thalia rabbiosa, ritirando il braccio.

Altea espirò forte, allargando le narici come le froge di un cavallo. «Rispondimi, allora: come é possibile che questo bambino sia sopravvissuto nonostante i tuoi tentativi di distruggerlo?»

«Non lo so.», fu la risposta, accompagnata da uno sguardo di sbieco.

«Gli dei lo sanno, invece.» Finalmente Altea poté tornare ad appoggiare la schiena al carretto, proprio mentre Dioneo guidava i muli sulla soglia di una foresta.

Il cielo si era d'improvviso oscurato. Thalia sollevò il viso per godere un po' della frescura regalata da platani e querce. Ma non vide rami frondosi agitati dal vento. Tutto era bianco e livido, lì dove doveva esserci il verde. Gli alberi c'erano, anche se dai loro rami non penzolavano liane, ma ossa umane, che emettevano un macabro ticchettio ad ogni folata. Le cortecce erano ricoperte di teschi, mani e piedi ossuti, resti polverosi di quelli che una volta dovevano essere uomini, donne, forse anche bambini. Cadaveri antichi sorridevano ai tre sul carretto da ogni parte. 

domenica 29 novembre 2015

Libera (7)

Il cortile sud del palazzo riecheggiava del latrato di tanti cani che si avventavano sulle cosce di montone brandite da Arkil. Lo schiavo si agitava terrorizzato tra quelle bestie fameliche e alla fine fu costretto a gettare loro tutta la carne del vassoio, temendo che i suoi polpacci finissero in qualcuna di quelle fauci. 

Eeta guardava la scena compiaciuto e divertito. Si accarezzava la barba intrecciata e annuiva. «Devo dire che hai fatto un ottimo affare, mia cara. Sono delle bestie magnifiche, snelle, agili, dal manto lucido e il carattere vivace.»

«Sono lieta che ti piacciano, mio signore.». Idia gli stava accanto, molto meno divertita dalla scena. 

«Dodici cani per una sola schiava. Un prezzo più che generoso. Ma dimmi, a cosa devo un regalo tanto gradito?». Eeta adesso squadrava la sua sposa da capo a piedi. I latrati erano cessati, si sentiva soltanto il rumore della carne strappata e delle ossa frantumate dalle mascelle canine.

Idia sfoderò il suo sorriso più affabile. «Una donna deve forse avere un motivo per compiacere il suo sposo?».

«Certo che no, mia cara.» Eeta portò una mano dietro il collo di Idia e le avvicinò il viso fino a baciarle la bocca. Continuò a sorridere anche mentre le sue dita cominciarono a tirarle i capelli dietro la nuca. «Ma non osare mai più privarmi di un mio giocattolo, o farai la fine di quel montone.», la minacciò. 

Idia emise un grugnito e sentì le lacrime salirle agli angoli degli occhi. Riuscì comunque ad annuire e solo allora il re la lasciò andare soddisfatto.

«Una muta davvero magnifica», commentò Eeta ad alta voce, per poi voltarsi e sparire nei meandri del palazzo.



Idia piangeva, massaggiandosi il collo. Eppure non si era mai sentita tanto sollevata.

domenica 15 novembre 2015

Libera (6)

Il sole era già alto nel cielo quando Altea fece ritorno. Sedeva su un carretto trainato da mulo attempato, insieme a un uomo massiccio dalle nocche nodose. Dietro di loro, un ragazzo stava seduto a braccia incrociate, anche lui robusto, in tutto simile all'uomo che teneva le redini, salvo che per il colore della pelle, leggermente più scura. Era cresciuto molto dall'ultima volta che Altea lo aveva visto.
Quando il carro si fermò a pochi passi da Idia e Thalia, Altea scese con più agilità di quanto si sarebbe dovuta concendere. Una fitta alla schiena venne a ricordarle la sua età. 

«Perdona il ritardo mia signora, ma la moglie di Dioneo aveva qualche remora sulla nostra destinazione.», si giustificò, sorridendo ai borbottii del grosso contadino.

Anche lui e il ragazzo saltarono giù dal carretto per rendere i loro omaggi alla regina. «Mia moglie non ha tutti i torti, però. La Fo...».

«Hai già dimenticato le mie raccomandazioni, Dioneo?» Altea lo interruppe prontamente. Essere costretta ad alzare la voce la irritava sempre. «Sarai sordo e cieco durante questo viaggio, nonché muto, ora come al tuo ritorno.».

«Perdonami, saggia Altea, l'età irrigidisce la mente e scioglie la lingua, si sa.».

Altea gli concesse un sorriso di perdono, anche se avrebbe tanto voluto colpirgli la testa col suo bastone d'ebano.
«Siamo pronti per partire, mia signora.» Annunciò poi ad Idia. Per un attimo credette di vedere Thalia svenire, tanto era impallidita. Ma non accadde. La regina, invece, le si avvicinò con aria preoccupata, torcendosi una ciocca di capelli tra le dita.

«Rispetterò i miei propositi e non ti chiederò dove la porterai. - le sussurrò a un orecchio - Promettimi solo che sarà al sicuro. Ti prego.».

«Al sicuro e libera, regina.».

«Molto bene, allora.» Idia si allontanò, continuando a torcersi i capelli tra le dita. «Mi duole non poter venire con voi, ma se tardo ancora, il re comincerà a chiedersi dove sono, o peggio, manderà qualcuno a cercarmi.».

Altea annuì. Si era aspettata un'eventualità del genere. «Lascia almeno che Thestios ti scorti sulla via del ritorno. Penserò io a tutto.». Tese una mano a Thalia, accompagnando il gesto con un sorriso.

Ma la ragazza si strinse alla regina, le afferrò il braccio con entrambe le mani, sperando forse che nessuno avesse il coraggio di strapparla via dalla sua padrona.
Idia si chinò sulla sua ancella, ancora leggermente più bassa di lei, le scostò una ciocca riccioluta dal viso e glielo accarezzò, come farebbe una madre con una figlia.

Altea distolse lo sguardo, come se in qualche modo avesse potuto violare quel momento di tenerezza. Fece segno a Thestios, il solido figlio di Dioneo, di attendere lì accanto a lei, finché gli addii non fossero stati detti e le lacrime asciugate. Finalmente, Thalia si inchinò un'ultima volta fino a baciare i sandali della regina. Quando si rialzò, il volto era asciutto, la fronte liscia e le labbra ferme. Un passo dietro l’altro, raggiunse il carro e andò a sedersi nel vano posteriore, pieno di attrezzi da falegname.

«Sarà meglio andare, Venerabile Madre. Se non sono a casa per il tramonto, la mia sposa mi accoglierà a colpi di scopa.», avvertì Dioneo. «Gli dei ti proteggano, mia regina. Mio figlio di certo lo farà.». E con un inchino a Idia e una pacca sulla spalla di Thestios, il contadino andò a riprendere le redini dei muli.

Altea alzò i palmi al cielo a salutare la regina. «Non ti angustiare, mia signora. Mi prenderò molta cura della tua protetta e serberò il segreto. Lo faremo tutti.».

«Ne sono convinta.» Idia rispose con lo stesso saluto. «Non potrò mai ringraziarti abbastanza, saggia Altea.».

«Non ne avrai bisogno.» Così dicendo, anche Altea prese posto sul carro.

Quando finalmente partirono, Thalia rimase con la testa nascosta tra le braccia strette attorno alle ginocchia. Non si voltò neanche per un ultimo sguardo alla sua regina.  Sembrava non voler vedere niente di tutto quello che le accadeva intorno.

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domenica 1 novembre 2015

Libera (5)

In un altro momento Thalia avrebbe amato quell’abbraccio, ne avrebbe goduto ogni istante, tanto rare erano le occasioni per esprimere il suo affetto alla padrona. Ora, invece, se ne stava rigida, paralizzata dalla rabbia. Non aveva deciso lei di “unirsi e procreare”, lei non lo voleva quel bambino. La voce nella sua testa divenne un grido tagliente, tutti i suoi più oscuri desideri tornarono ad affastellarsi nella sua mente, così vividi che, se avesse avuto un coltello, Thalia avrebbe trovato la forza di attuarli. Perché, perché avrebbe dovuto sopportare tutto questo? Perché avrebbe dovuto vivere in esilio, lontana dall’unica parvenza di famiglia che avesse mai conosciuto? Calciope…Il pensiero andò a lei e realizzò che non l’avrebbe più rivista. E poi come avrebbe vissuto? Con chi? Sarebbe rimasta sola con l’incarnazione dell’uomo che l’aveva condannata.

Thalia si staccò dall’abbraccio della regina con uno strattone, ma riuscì a trattenere la furia fra i denti. Forse poteva ancora convincerla. «Mi signora – supplicò - deve esserci un altro modo. Non devi liberarmi di te, ma di questo.», e si artigliò il ventre con una mano. «Ho sentito altre schiave parlare di pozioni, rimedi…Sono ancora in tempo, non è troppo cresciuto perché abbiano effetto. Allora potrei tornare con te e tutto tornerebbe come prima! Non accadrà mai più, te lo prometto. Starò al fianco di Calcìope giorno e notte e il re non si accorgerà neanche della mia presenza.». Una valanga di parole, il tono concitato dell’ultima preghiera, come quella di un condannato a morte.

Adesso era Idia a fissarla un misto di orrore e compassione. «Tu non sai quello che chiedi, piccola mia. Non puoi uccidere la vita che ti cresce dentro senza uccidere anche una parte di te. Potresti pentirtene per il resto della tua vita.».

«Sono pronta a correre il rischio!».

«E se anche dovessi liberarti del bambino, di tuo figlio, che cosa faresti dopo? Eeta continuerebbe a tormentarti, saresti sempre una schiava e la mia protezione non varrebbe niente di fronte al comando del re.»

A questo Thalia non sapeva cosa rispondere, così Idia continuò. «Tua madre conosceva i pericoli che correva, dandoti alla luce, ma decise lo stesso di tenerti, soltanto per provare la gioia di stringerti tra le braccia, anche solo per poco. Io provai a nasconderla, ma ero giovane e ingenua e non ci riuscii. Quando fu portata via, mi fece promettere di prendermi cura di te. Ora ti sto dando la libertà, ed è il dono più grande che possa farti. Da oggi sarai tu a decidere della tua vita…e della sua.». La regina pose una mano su quella di Thalia, ancora poggiata sul ventre. Per un lungo istante le iridi verdi-azzurre della regina si incontrarono con quelle nere dell’ancella, e poi fu lei a cercare di nuovo l’abbraccio di Idia. 

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domenica 18 ottobre 2015

Libera (4)

Quando arrivarono al limitare del campo, Altea riprese finalmente a parlare: «Aspettatemi qui, mia signora. Conosco la famiglia che si occupa del campo. Abita in quella casa laggiù. Più di una volta ho curato la padrona e i figli che sono nati da lei. Il suo sposo ci aiuterà a raggiungere il posto che ho in mente.».

Idia annuì senza l’ombra del dubbio. Thalia invece rimase a testa bassa, le mani sul piccolo ventre. Aspettò che la sacerdotessa si fosse allontanata abbastanza, prima di emettere un bisbiglio stentato: «Perché?». Quella parola le ronzava in testa da quando aveva capito di essere incinta, ma solo allora la lasciò uscire.

Idia le rivolse uno sguardo confuso. «Come dici?».

Thalia si coprì allora il volto con le mani e iniziò a piangere. «Mia signora…perché…perché mi abbandoni? Ti prego…Non farlo!». La voce usciva a singulti, rimbombando nella coppa delle mani.

 Idia sospirò nervosamente. «Preferisci tornare al palazzo e diventare una delle concubine del re?».

A quella prospettiva, Thalia sentì nuovamente bruciare la cicatrice sotto il seno, il marchio di Eeta. Non riusciva a smettere di piangere, le lacrime sgorgavano contro la sua volontà. Quanto avrebbe voluto avere la forza di fare ciò che le sue fantasie le suggerivano!

«Io voglio restare con te, padrona!», riuscì a supplicare tra un singhiozzo e l'altro. 

La regina le si avvicinò e lei fu pronta a ricevere un abbraccio, forse l'ultimo. E invece Idia la afferrò saldamente per le spalle, costringendola a fissare gli occhi nei suoi. Erano duri come due pietre d'acquamarina. 
«Pensi davvero che ti permetterei di rimettere piede nel letto di quel...di mio marito? Pensi che ti voglia abbandonare, Thalia? Io ti sto liberando! Non sarai più la schiava di nessuno e, credimi, non sono molte le padrone disposte a privarsi della propria ancella, soprattutto dopo averla cresciuta e protetta per quasi quindici anni!»

Thalia adesso provava vergogna. Sapeva di dover essere grata alla sua padrona, ma quel senso di abbandono non voleva andarsene. Dove l’avrebbe portata la sua libertà?

Idia continuava a stringerle le spalle, con forza ma senza farle male. Attese che i singhiozzi diminuissero e poi le prese il mento tra le dita. I suoi occhi adesso erano due polle d'acqua cheta. «So che molte volte ti sei chiesta chi fossero i tuoi genitori o dove fossero. Non ti ho mai rivelato niente, né ho permesso che altri lo facessero, perché ho sempre voluto proteggerti.» Thalia ebbe l'impressione che anche la regina fosse sul punto di piangere. «Eri una bambina così graziosa, così buona. Ma poche settimane dopo la tua nascita, Eeta mandò i suoi uomini a prendere i tuoi genitori, li fece picchiare, torturare e poi li vendette a mercanti fenici. Non fece lo stesso con te solo perché io lo implorai di tenerti con me.». 

Thalia non piangeva più, gli occhi le bruciavano ancora, ma erano asciutti. “Perché?” Di nuovo quella parola nella testa, ma stavolta sembrò che anche la regina potesse udirla. 

Idia la abbracciò come non aveva mai fatto prima, così stretta che Thalia poteva sentirne il profumo dell’olio di rosa sulla pelle. «Gli schiavi non possono unirsi e procreare senza il permesso del padrone. Questa è la legge nella casa di Eeta. E il re conosce molti modi crudeli per applicarla. Immagina cosa farebbe a te, piccola mia. Eeta non ammetterebbe mai di essere...il responsabile. Ti punirebbe insieme a un altro schiavo di sua scelta. Vi farebbe implorare la morte e poi vi venderebbe. E io non posso permetterlo, non stavolta.». 

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domenica 4 ottobre 2015

Libera (3)

L’incontro tra Idia e Altea era ovviamente andato a buon fine, nonostante Thalia aveva pregato con tutte le sue forze di veder tornare la sua regina da sola e delusa. Strinse le labbra tra i denti perché non tremassero.
Idia le avvolse le spalle con un braccio. «La Venerabile Madre ha accettato di accoglierti e prenderti al suo servizio. Starai bene, Thalia. La saggia Altea conosce un luogo sicuro, dove potrai vivere in pace e dare alla luce il tuo bambino senza timori…».

«E la Grande Hera veglierà su di te attraverso questa sua umile serva.», intervenne Altea, per unirsi alle consolazioni della regina.

«Sì, mia signora.», mormorò l’ancella. Era questo che doveva rispondere, sempre. Obbedire e nient’altro, era tutto ciò che conosceva. E fino ad allora le era andato bene. Ma quel giorno Thalia sentiva più forte dentro di sé il desiderio di urlare, vomitare tutti i “no” che non aveva mai potuto dire. Una forte nausea le rivoltò lo stomaco, ma il bambino non c’entrava. Erano le paure, che si incalzavano l’un l’altra, si accavallavano e ammassavano in un macigno di pura tensione nelle sue viscere.

Che cosa ne sarebbe stato di lei, si chiedeva. Che cosa avrebbe fatto, lontana dalla sua regina, bandita dall’unica casa che avesse mai conosciuto? Sarebbe voluta scappare, ma per andare dove? I suoi genitori, non li aveva mai conosciuti. Non aveva radici tra i Colchi ed era rifiutata dai Greci. Si sentiva impotente, trascinata dal destino come una foglia da un fiume in piena. 

Eppure Thalia continuava a obbedire, silenziosa. Metteva un piede davanti all’altro, quasi fosse davvero spinta da una corrente invisibile, e seguiva la regina e la sacerdotessa che si avviavano fuori dal tempio, oltre il recinto sacro. Per un po’ le sentì mormorare, poi le loro voci non furono altro che un sottofondo indistinto ai suoi pensieri plumbei.

Pensieri violenti, come mai ne aveva avuti prima di allora. Avrebbe dovuto ficcarsi un coltello tra le viscere ed estirpare quella creatura indesiderata, invece di deturparsi inutilmente le braccia. Si guardò le cicatrici che si diramavano dai polsi all'interno dei gomiti e si sentì una stupida. Aveva bevuto pozioni nauseabonde fino a farsi rivoltare lo stomaco, ma niente. Quell'essere continuava a crescerle dentro, la derideva dal suo alveo sicuro, Thalia poteva quasi vederlo.

La linea azzurra del mare in lontananza spazzò via quelle visioni, come fossero fatte di fumo, e le rimpiazzò con desideri altrettanto inaspettati. Thalia sentiva una voglia irrefrenabile di correre giù per il pendio del colle, attraversare la città, urlando maledizioni ad Eeta, e infine buttarsi in mare e nuotare fino ai confini dell’Oceano. Fantasie, stupide fantasie che si diradarono con altrettanta facilità quando la regina e la sacerdotessa la costrinsero a voltare le spalle al mare.

Erano intanto giunte alla strada mattonata che portava al molo, ma non la seguirono. La attraversarono e tornarono a salire sulle pendici del grande colle, di cui il tempio occupava solo una piccola parte. Tutto intorno era una distesa di campi coltivati, sostentamento tanto per il palazzo del re, quanto per i templi che lo circondavano.
Si inoltrarono in un folto campo di grano maturo, quasi pronto per la mietitura. Thalia si guardava intorno, smarrita, e la regina sembrava disorientata quanto lei. La sacerdotessa, invece, continuava a procedere in silenzio, con passo sicuro. 

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domenica 20 settembre 2015

Libera (2)

Thalia sarebbe andata via, Idia ne era finalmente certa.

«Quanto lontano?», osò chiedere senza alzare lo sguardo dalla tazza.

«Quanto tu desideri, mia signora. Tanto da permetterti di vederla ogni giorno senza sforzo, oppure così lontano che ogni Greco della regione ne ignorerà l’esistenza…Sta a te decidere.», ribadì Altea fermamente.

Idia si torse una ciocca di capelli tra le dita. Sentiva di aver già preso una decisione, ma non trovava il coraggio per pronunciare le parole necessarie. Arricciò il naso quando le lacrime affiorarono. «Per il suo bene, che vada dove neanche io posso raggiungerla. Per il suo bene.», ripeté più a se stessa che ad Altea.

«D'accordo, allora. - acconsentì la Venerabile - Conosco un luogo...»

«Ti prego, Madre, non dirmelo. - la interruppe Idia, facendo quasi cadere la tazza - Se non so, non avrò tentazioni, né potrò rivelare alcunché.»

Altea distese la fronte, comprensiva, e annuì.

«Mi fido del tuo saggio giudizio, Madre Altea. Ti ringrazio.». La regina tirò un sospiro di sollievo, le spalle rilassate, come appena liberate da un peso. 

Altea sorrideva. «Porta da me la ragazza quando preferisci. Sarà accolta e curata volentieri, non diversamente dalle altre future madri che vengono qui in cerca della protezione della Grande Hera.». Con un ampio gesto del braccio invitò la regina ad accompagnarla fuori dall’alloggio e a tornare insieme a lei nel tempio.

Idia si alzò, ma non mosse un passo. Si lisciò la tunica amaranto, invece, e si schiarì la voce: «A dire la verità, Thalia è già alle porte del tempio ad aspettarci. Non volevo farla entrare senza il tuo consenso, ma…».

«…ma non avresti accettato un mio rifiuto.», concluse Altea, dando voce ai pensieri inespressi di Idia. «Sarà meglio farla entrare, allora, prima che questo sole cocente le offuschi i sensi.». Riprese lo scettro d’ebano appoggiato accanto alla porta della camera chinò la testa e attese che Idia la precedesse.

Le due donne attraversarono in silenzio il piccolo orto di erbe medicamentose che separava la piccola casa di Altea dalle mura imponenti del tempio. Ad attenderle tra le colonne del peristilio, il colonnato che circondava il recinto sacro, stava Thalia, in muta attesa all’ombra di una colonna. Non aveva osato mettere piede nella casa di una dea greca. Un leggero rigonfiamento all’altezza del ventre le deformava la tunica color croco, ma di certo non si sentiva come una donna in dolce attesa avrebbe dovuto sentirsi: lei quell'attesa non la voleva. Non appena vide arrivare la sacerdotessa e la regina, Thalia accennò a un inchino nervoso, lo sguardo basso, sempre più umido.

«Benvenuta nella casa della Grande Madre Hera, giovane Thalia.», la salutò Altea, rivolgendole un sorriso affabile.

La ragazza si sforzò di ricambiare, ma non riusciva a fare a meno di guardare con apprensione la sua regina. 

Continua...

domenica 6 settembre 2015

Libera (1)

L’alloggio della sacerdotessa Altea non era come Idia se l’era immaginato, pieno di effigi della dea Hera e impregnato dell’odore di incenso. Era una stanza semplice, di una sobrietà austera, fin troppo ordinaria per una Venerabile Madre, arredata con pochi mobili essenziali, che ne accentuavano la spaziosità: un letto su un telaio di legno liscio, privo si intarsi o decorazioni, alcune sedie di legno scuro ed un largo tavolo con una lastra in pietra grigia, robusto, senza particolari cesellature. Su questo l’unica nota preziosa della stanza, una statuetta d’oro della dea, inserita in un altarino di alabastro, illuminato da piccole lampade ad olio. Da una finestra filtravano i raggi del sole, che rischiaravano l’ambiente di una calda luce dorata, creando una mistica aura attorno alla reliquia appesa sopra la testata del letto. Un corno candido, lungo circa un braccio, su cui erano state intagliate le scene di un sacrificio, curate nei minimi dettagli, un lavoro di fattura tanto precisa, che Idia riusciva a distinguerne le figurine di una sacerdotessa con il capo velato e di una novizia nell’atto di ricevere una ghirlanda di melograno, mentre sotto di loro un sacerdote sgozzava un possente toro, riversandone il sangue in una bacinella posta sotto la sua gola. 

«Quello è il corno del bue che venne sacrificato il giorno della mia consacrazione.», spiegò Altea, notando l’interesse della regina. Le porse una tazza di acqua, succo di limone e miele, invitandola a sedersi con un gesto della mano.

 «Perdona la scomodità della mia casa, mia signora, non sono abituata a ricevere visite, soprattutto dai membri della famiglia reale. Ma se cerchi un momento di serenità, sei nel posto giusto.».

«In questo caso, penso che verrò a trovarti più spesso.», risero entrambe, ma la regina aveva palesemente i nervi a fior di pelle. Piccoli cerchi concentrici si formavano nell’acqua al miele, tanto tremava la mano di Idia. «Sei tu che devi perdonare me, Venerabile Madre, per i miei modi insoliti. Ti avrei fatto convocare e venire al palazzo, come sempre, ma certi discorsi richiedono un luogo…sereno, per l’appunto.» La regina nascose un sorriso amaro prendendo un sorso della bevanda. 

«Non giustificarti, mia signora – la tranquillizzò Altea – Per me è un onore riceverti in ogni circostanza. Dimmi, sei stata turbata da altre visioni? ». La sacerdotessa prese posto davanti alla regina, schiena dritta e mani incrociate sulle gambe, il suo assetto da ascolto.

Il tremore passò dalla mano alla voce di Idia. «Nessuna visione. Da quando sono nati i gemelli, devo ringraziare gli dei se ho il tempo di chiudere occhio per per qualche momento. Sono venuta qui per un problema molto più concreto.». Prese un altro, lungo sorso della bevanda. «Questa volta però non si tratta di me, Venerabile Madre. Sono venuta a chiederti di prendere Thalia sotto la tua protezione, al servizio del tempio.».

Altea non nascose una certa sorpresa. «Mi ricordo della ragazza. La tua ancella Colca, se non sbaglio…», rammentò, gli occhi stretti fino a creare un profondo solco in mezzo alla fronte.

«È nata da schiavi colchi – si affrettò a rispondere Idia – ma è cresciuta a fianco di mia figlia Calcìope, come lei ha seguito i miei insegnamenti, nonostante fosse al mio servizio, e se non fosse per il colore della sua pelle, la diresti una Greca di genitori greci.».

Altea si portò l’indice alle labbra, pensierosa. «Non era questo ciò a cui pensavo, mia signora, anche se una Colca tra le novizie non passerebbe certo inosservata. Mi domando, però, perché una regina dovrebbe volersi privare della sua ancella personale...». Gli occhi erano ridotti a due fessure, come se volessero scrutare nei pensieri di Idia. 

La regina prese l’ultimo sorso dalla tazza di acqua e miele, tentando di dissimulare la sua incertezza su cosa dire, o meglio su come dire ciò che aveva in mente. Che cosa si aspettava? Che la sacerdotessa accettasse la sua richiesta senza battere ciglio, soltanto perché lei era la regina? Forse sì, lo aveva pensato, sperato, dimenticandosi di quanto poco si fosse servita in passato di quel titolo. Ad ogni modo sapeva che Altea non avrebbe mai accettato passivamente nessun ordine, neanche se questo fosse venuto da Eeta in persona. Lei rispondeva soltanto agli dei. 

Alla fine Idia prese un profondo respiro, tornando a fissare gli occhi sulla figura di Altea, snella e solida come l'albero di una nave veloce. «Thalia presto sarà madre, non sarà più in grado di occuparsi delle sue mansioni.». Le stava dicendo solo una parte della verità, ma tentò ugualmente di sostenere lo sguardo indagatore di Altea, sperando che le bastasse.

Altea lì per lì non rispose. Si alzò e si diresse alla finestra, immergendosi nei riverberi del sole. I capelli bianchi, la tunica candida e le sottili catene d’oro che le cingevano la vita e i polsi crearono su di lei un’aura quasi incandescente. 

Idia iniziò a grattare la terracotta della tazza, finchè non sentì l’unghia dell’indice scheggiarsi.

 «Sarebbe più arduo nascondere una gravidanza che il sangue barbaro della ragazza. – Fu alla fine il responso di Altea – Mia signora, non potrò fare di lei una novizia in quelle condizioni: susciterebbe troppe domande, persino astio tra le altre sacerdotesse di Hera.».

Idia trattenne il respiro, impreparata a un rifiuto.

«Ma…se quello che vuoi è allontanarla dal palazzo, potrei tenerla con me, affidandole semplici compiti domestici. Potrei darle un alloggio poco distante dal tempio: in questo modo sarebbe al sicuro da occhi indiscreti e, quando arriverà il momento del parto, nessuno si interesserà del bambino, se non io stessa.». 

Un penetrante sguardo d’intesa colpì Idia. “Allontanarla dal palazzo”. La regina dimenticava sempre quanto la Venerabile Madre riuscisse a essere perspicace: a volte sembrava quasi che gli dei le sussurrassero all’orecchio i segreti di chi le stava accanto. Le bastava uno sguardo, una parola, un gesto, anche solo un momento di silenzio per strappare via la maschera dal viso degli uomini e leggere le loro anime, come scolpite su una stele di granito. Anche allora la sacerdotessa era riuscita a cogliere l'essenza dei suoi turbamenti dietro poche, pochissime parole. Questo spaventava e meravigliava Idia allo stesso tempo.

Continua...

sabato 8 agosto 2015

Un nuovo giuramento (8)

Atalanta si sentiva confusa. Inclinò la testa da un lato, come a tentare di inquadrare meglio il personaggio che le stava di fronte. 

«Tu hai capito che l'unica cosa che voglio é uccidere Neleo e Roikos, vero?»

Arktos sbuffò come un bue e si massaggiò gli occhi tra pollice e indice. Poi si infilò la mano nel collo della tunica e ne trasse fuori una catena d’ottone. Alla sua estremità era attaccato un medaglione d’oro, su cui erano incise l’immagine di un ariete e una scritta: KRATEI AIOLOU, “Con la forza di Eolo”. Solo allora Atalanta decise, anche se non poco irritata, di sedersi a gambe incrociate davanti a lui. Si prospettava un racconto e le sue gambe non ce la facevano più.

«Questo è il simbolo della casa di Esone - iniziò Arktos - il simbolo degli Eolidi, che per secoli regnarono su questa terra. Molti anni fa prestai giuramento su questa effigie, quando ancora il padre di Esone, Creteo, sedeva sul suo legittimo trono. Giurai di proteggere i re di Jolkòs, di morire per loro e i loro figli, se fosse stato necessario. Servii fedelmente la casa degli Eolidi per molti anni, prima come soldato, poi come ufficiale di alto grado e infine come lawaghetas, il capo delle guardie. Notti fa...possano gli dei perdonarmi...Notti fa, ho infranto il mio giuramento. Il re Esone, il mio re, é morto. E come puoi vedere, io sono ancora vivo, invece.» 

Atalanta credette di percepire un lieve tremore nella voce di Arktos, ma fu come il mugolio di un temporale lontano. 

«Oggi, però, Zeus onnipotente mi ha portato sulla tua strada. Se ciò che hai detto é vero...»

«É vero!», lo interruppe Atalanta, pronta a esplodere di rabbia.

La mano possente di Arktos avanzò ad arginare la furia. «...allora c'é ancora speranza per me di salvarmi dalla dannazione del Tartaro. La mia anima è legata a questo medaglione, e proprio quando stava per diventare un inutile pezzo di ferraglia, sei arrivata tu a restituirgli il suo nobile significato.»

«E come avrei fatto?», chiese Atalanta, gli occhi stretti come a tentare di ritrovare il filo del discorso.

«Ah, ma non capisci?!», sbottò Arktos, mettendo via il medaglione con uno scatto della mano. «Perché Pelias avrebbe dovuto bruciare le spoglie di un bambino comune se il principe Iason fosse nelle sue mani?! Ci scommetto la barba che la regina ha trovato il modo di salvarlo!». 

Il gigante prese le minute spalle di Atalanta tra le sue immense mani e finalmente la ragazza poté vedere una sorta di sorriso farsi strada nel cespuglio corvino delle sue guance. «Se il principe é ancora vivo, allora un giorno la nobile casa degli Eolidi potrebbe tornare a regnare sulla terra di Tessaglia. Non capisci, ragazzina? Posso ancora salvare il mio onore!» 

Eolidi. Onore. Parole vuote per Atalanta, ostacoli al suo vero, irrinunciabile obiettivo. Si scrollò dalle spalle le dita callose di Arktos. 

«Il tuo re é morto, bestione. Il tuo principe sarà ormai cibo per lupi. E io non voglio nascondermi in questo buco, mentre tu cerchi un cadavere per chissà quanto tempo. Devo vendicare la mia famiglia, altrimenti Persefone manderà anche me a marcire nel Tartaro insieme a te.» Detto questo, si alzò dal pavimento, andò a recuperare il suo arco e prese la via della porta, senza la minima intenzione di voltarsi.

«Stupida ragazzina, ti farai ammazzare!», grugnì Arktos. Ma quando Atalanta fu a un passo dalla soglia, il colosso si batté la mano destra sul petto e proclamò con quanto fiato aveva in corpo. «Per tutti gli dei dell’Olimpo e degli Inferi, per l’acqua del fiume Stige, che la mia anima possa annegarvi per l’eternità, giuro di aiutarti nella tua vendetta e punire così la scellerata empietà di Neleo, Roikos e Pelias.».

Atalanta si bloccò, come intrappolata nella pania. Il bestione aveva pronunciato il giuramento inviolabile, il voto sul fiume dell’Ade che neanche gli dei possono spezzare. Persino lei, cresciuta nei boschi, ne conosceva la sacra validità. Quello strano, granitico, immane uomo parlava con cuore sincero, il suo pensiero non era diverso dalle sue parole. 

Perché ci tenesse tanto a tenerla con sé, Atalanta non riusciva ancora a spiegarselo. Ma adesso non le dispiaceva più tanto l'idea di restare e scoprirlo. Fece un passo indietro, si tolse l'arco dalle spalle e si voltò. Arktos era ancora ritto in piedi, mano destra sul cuore e sopracciglia unite in mezzo alla fronte.

Anche lei alzò una mano e se la portò al petto. «Io sono Atalanta, figlia di Etandro. E accetto il tuo giuramento.».

domenica 2 agosto 2015

Un nuovo giuramento (7)

Era notte fonda quando arrivarono a destinazione. La falce della luna illuminava appena il minuscolo rifugio tra gli alberi. Quattro pareti di legno muffito con una porta su un lato e una sporchissima finestra su un altro. Il tetto era di paglia fradicia piena di buchi e su una delle estremità giacevano i resti di quello che doveva essere stato un camino.

Tutto intorno alla capanna, il terreno era pieno di erbacce, ortiche e gramigne. Solo in un punto, accanto alla parete est, cresceva una macchia verde punteggiata di bianche margherite, sovrastata da una stele di roccia grigia. Doveva esserci qualcosa inciso sopra, ma le lettere erano state mangiate dalla muffa.

Arktos si accostò alla pietra e ne strinse la sommità con una mano. «Qui é dove sono cresciuto, insieme a mio padre.», disse poi, togliendosi il cappello. La luce della luna si rifletteva sul suo cranio calvo. «Come puoi vedere, persino gli dei si sono dimenticati di questo posto. Nessuno ci cercherà qui.»

Ad Atalanta pareva impossibile che un simile gigante fosse cresciuto in una casa così piccola. «Perché dovrebbero cercare te?». Lei aveva azzoppato un uomo fuori da una taverna e si era infiltrata nel palazzo reale, cosa che si guardò bene dal rivelare. Ma Arktos? Chi avrebbe dovuto cercare un bestione come lui?

«Prima entriamo e accendiamo un fuoco, ragazzina. Sto gelando.».

Atalanta si era completamente dimenticata della clamide che la ricopriva, perciò obbedì, tentando di reprimere la sua diffidenza. Ad ogni buon conto, si tenne il suo pugnale ben stretto in mano.

La porta si aprì con un cigolio sinistro e immediatamente si sentì lo squittio di un pipistrello che si dava alla fuga. Un forte odore di muffa ed escrementi animali investì Atalanta appena entrata, tanto che fu costretta a trattenere un conato di vomito. 

«Avrei dovuto prendermene più cura. L'ultima volta che sono stato qui, avevo ancora i capelli.», commentò Arktos nell'oscurità, il tono di voce sempre apatico. 

Iniziò ad avanzare a tentoni, raccogliendo qualcosa da terra lungo il tragitto. Atalanta invece non si mosse, un po' perché lottava ancora contro la nausea, un po' perché non sapeva dove mettere i piedi. Poi sentì un paio di stridenti ticchettii provenire dalla sua destra e rapide scintille vennero ad illuminare come lampi la faccia barbuta di Arktos. La terza scintilla si trasformò in un piccolo falò lì dove c'era il camino. Arktos aveva dato fuoco alle gambe marce di una sedia, provocando così un fumo denso e acre. Ma almeno adesso ci vedevano e potevano riscaldarsi le membra.

L'interno della casa era ancora più cadente dell'esterno, notò Atalanta. Le mattonelle del pavimento erano tutte crepate, e in qualche punto si erano anche infiltrate delle ortiche. Il legno alle pareti sembrava sul punto di crollare da un momento all'altro, ma non prima del tetto, che continuava a perdere pezzi ad ogni folata di vento. Addossato alla parete opposta al camino, c'era un giaciglio con un materasso bitorzoluto. Le tarme avevano lasciato stralci di una coperta di lana, resa dalla polvere dello stesso colore di tutto il resto. Ai piedi del letto - se così si poteva definire - stava riverso uno sgabello bucherellato dalle termiti. Infine, al centro della stanza stavano ammucchiati i resti marciti di un tavolo, a giudicare dalle poche assi integre rimaste. 

«Ne farò uno nuovo.», comunicò Arktos ad Atalanta, che si era avvicinata alla massa informe di legname. «E lo tratterò meglio di quanto ho fatto con questo.»

La ragazza lo raggiunse davanti al fuoco. Guardandolo sempre di sottecchi e mantenendo una certa distanza, gli restituì la clamide. «Perché mi hai portato qui?», chiese finalmente al colosso quando si riappropriò della sua mantella.

«Te l'ho detto. Qui saremo al sicuro. Nessuno sa di questo posto da molto tempo, e...»

«Voglio dire, perché mi hai detto di seguirti?», spiegò nervosamente Atalanta. «Prima mi impedisci di uccidere Neleo. Poi mi dici che sei l'unico a potermi dare la mia vendetta. E infine mi porti qui. Voglio sapere perché! Chi sei tu, per Zeus?!»

Arktos si spostò dal camino al giaciglio sbilenco. Con una manata si liberò degli stracci che lo ricoprivano e si sedette. Il giaciglio protestò sotto il suo peso. «Prima di tutto, non avevi alcuna possibilità di uccidere Neleo. Ti saresti fatta scoprire da qualcuno meno gentile di me e adesso non staremmo qui a parlare. Qualche dio deve averti preso in simpatia, ragazzina, se ti ha fatto incontrare proprio me.»

Atalanta incrociò le braccia, poco convinta. «Davvero? E perché?»

Il fuoco del camino si rifletteva nelle pupille nere di Arktos. «Perché io e te vogliamo la stessa cosa.»

Continua...

domenica 26 luglio 2015

Un nuovo giuramento (6)

Camminarono l'uno a fianco all'altra finché il sole non smise di filtrare dai rami degli alberi. Si erano inoltrati nel cuore della foresta, ma Atalanta poteva ancora sentire di tanto in tanto l'odore salino del mare. Stavano procedendo lungo la costa, badando a tenersi ben lontani dalle vie battute da carri e viandanti.

L'aria cominciava a raffreddarsi, Atalanta sentiva i peli rizzarsi sulle braccia e dietro la nuca, una sensazione che la rendeva ancora più stanca e nervosa. «Hai intenzione di farmi attraversare a piedi tutta la regione?»

Nessuna risposta. Arktos continuava a mettere un passo dietro l'altro, male avvolto nella sua clamide striminzita, il cappello calcato in fronte.

«Sei diventato sordo? O ti sei inghiottito la ligua?»

Silenzio. Le sue parole sembravano avere lo stesso suono del vento.
Con un verso a metà tra un ruggito e un gridolino, Atalanta si fermò e piantò un piede. Le foglie morte e la terra umida glielo inglobarono e questo la spinse a urlare ancora di più. 

«Dimmi dove mi stai portando, o giuro che non muovo più un passo!».

Arktos finalmente sembrò accorgersi di lei. Si voltò, tornò indietro di un paio di passi e sollevò la tesa del cappello quel tanto che bastava perché Atalanta vedesse la sua espressione accigliata. «Te lo ripeto, ragazzina. - la voce resa ancora più cavernosa dal lungo silenzio - Non mi importa dove vai o cosa fai. Se vuoi restare qui a far da preda ai lupi, fai pure. Se, invece, vuoi seguirmi, la prima regola é non lamentarsi.»

«Io non mi sto lamentando. - ribatté lei stizzita - Ma certo non mi fido di te.»

«Non te lo sto chiedendo, infatti. Non ti sto chiedendo proprio niente. Sei tu ad aver bisogno di me, non il contrario.»

Atalanta iniziò a tremare. Per il freddo, per la rabbia, o per la stanchezza, non lo sapeva. I denti cominciarono a battere, impedendole di replicare. E senza neanche rendersene conto, si ritrovò seduta sul fogliame in putrefazione con una gran voglia di piangere. Si avvolse le braccia intorno al corpo, nel tentativo di frenare i tremori, pentendosi di non aver indossato una veste più pesante. Sua madre glielo avrebbe ricordato, ma lei non c'era più. Non doveva piangere. Doveva rimettersi in piedi e ricominciare a camminare, ignorare le fitte ai muscoli delle gambe e il bruciore delle vesciche ai piedi. Ora avrebbe puntato le mani sul terreno e si sarebbe rialzata. Forse anche Arktos glielo stava ordinando, ma non poteva esserne certa. Le orecchie le fischiavano e tutto ciò che vedeva era la sua cascata di riccioli rossi.

Aveva ancora le braccia avvolte intorno al busto quando sentì qualcosa di ruvido e caldo coprirle le spalle e la testa. A poco a poco, le dita ritrovarono sensibilità e toccarono lo sdrucito tessuto della clamide di Arktos.

Il gigante la guardava dall'alto in basso, gli occhi ridotti a due fessure cispose. «Adesso alzati, ragazzina. E tieni le mani sotto le ascelle.» Dopodicché le voltò le spalle, abbronzate e nerborute, e riprese il suo cammino.

Atalanta si strinse ancora di più nella clamide dal forte odore selvatico. "Chissà se l'ha mai lavata.", si chiese. Poi piantò un ginocchio e si rialzò senza emettere un fiato.

Continua...

domenica 19 luglio 2015

Un nuovo giuramento (5)

Quell'uomo non era solo strano. Era proprio pazzo, ora Atalanta ne era sicura. «Io non vengo da nessuna parte con te, bestione. Lasciami in pace.».

Il colosso si voltò a metà, le folte sopracciglia unite in mezzo alla fronte. «Ascoltami, ragazzina. Se vuoi farti ammazzare in uno dei tuoi goffi tentativi di tiro con l'arco, fai pure, non potrebbe interessarmi di meno. Ma se é la vendetta che vuoi, io sono l'unico, in un questo corrotto anfratto di terra dimenticato dagli dei, a poterti mostrare la strada per ottenerla. Vieni con me. Non te lo proporrò una terza volta.». E di nuovo, le diede le spalle, riprendendo il suo cammino a passi pesanti.

Atalanta lo lasciò fare. "Che l'Ade se lo porti, questo idiota impiccione."
Raccolse il suo arco e se lo rimise a tracolla, ma anche così la punta rinforzata in bronzo le strisciava tra le gambe, rendendo i suoi movimenti estremamente impacciati. 

Anche lei prese la via del crinale e una volta ai piedi della collina si ritrovò a un bivio. "Meglio che mi trovi un posto dove stare.", consigliò a se stessa. Da un lato la via portava a Iolkòs, all' agorà piena di uomini di Pelias, uomini come Roikos, che non avrebbero pensato due volte a mettere le mani addosso a una ragazza sola, vagabonda e vestita di nient'altro che di una tunica sporca. Per non parlare degli schiavisti, dei bordelli e dei miseri sicofanti, pronti a venderla al miglior offerente. 

Dall'altro lato del bivio, Atalanta poteva ancora distinguere la dondolante figura dell'uomo-orso che si avviava verso la macchia di olmi da cui era venuta la sera prima. Lo vide scomparire nella foresta prima di decidersi a seguirlo.

Corse quanto le permisero la faretra alla cinta e l'arco dietro le spalle: sentiva che la corda le stava segando il petto. Accolse con sollievo la frescura che trovò nella macchia alberi, ma quando gli occhi si abituarono alla penombra, si rese conto di essere stata troppo lenta. Aveva perso di vista il gigante, impresa per nulla semplice.

Frustrata, si guardò intorno, aspettando che il respiro tornasse normale.
«Di qua, ragazzina.», la richiamò la voce possente di quel bizzarro uomo peloso. Era a pochi passi alla sua destra, appena dietro un nodoso tronco di un leccio, eppure Atalanta non lo aveva neanche sentito.

«Non chiamarmi ragazzina.», gli intimò, affiancandoglisi.

«E come dovrei chiamarti?»

Atalanta non rispose, si limitò a guardarlo di sottecchi. Prima voleva vedere dove la stava portando.

L'uomo scrollò le spalle, indifferente. «Io mi chiamo Arktos, se può interessarti.»

Continua...

domenica 12 luglio 2015

Un nuovo giuramento (4)

«Che cosa hai intenzione di fare con quell’arco, ragazzina? Qualcuno potrebbe farsi male.».

Atalanta trattenne il respiro, la fronte imperlata di gocce di sudore. Lasciò cadere l’arco, per avere le mani libere di afferrare il pugnale che portava alla cintola. Ma non fece in tempo a voltarsi e puntare l’arma contro l’uomo alle sue spalle, che questo le aveva già ghermito il polso con una sola mano, facendole perdere la presa sul coltello e costringendola a sollevarsi sulla punta dei piedi. Un braccio nerboruto si sollevò a scalzare dalla testa un cappello a larghe tese, che con la sua ombra riusciva in parte a nascondere l'immane figura che lo indossava.

Non aveva mai visto un uomo più alto e grosso di lui: aveva la stazza e la forza di un orso, era ugualmente peloso, tranne che per la testa del tutto calva, e a occhio e croce sarebbe stato capace di schiacciarle il cranio come una noce. La scrutava incuriosito con i suoi piccoli occhi neri, mentre con la mano libera si grattava la mascella larga, ricoperta di una folta barba scura. 

«L-Lasciami andare!», balbettò la ragazza, appesa all’avambraccio nerboruto del gigante. 

«Prima dovrai dirmi che cosa facevi con quell’arco. È evidentemente troppo grande per te.», rispose quello, il vocione completamente inespressivo.

«Non sono affari tuoi, bestione!», ribatté Atalanta spazientita, cominciando a dimenarsi nel tentativo di sgusciare via da quella presa di ferro.

Il gigante sembrava non farci caso e continuava a guardarla con i suoi occhietti neri, aspettando una risposta alla sua domanda.

Dopo un po’ Atalanta cominciò a perdere sensibilità al braccio intrappolato. Che cosa poteva fare? Arrendersi? Continuare a lottare nella vana attesa che il gigante si stancasse prima di lei? Lei, poco più che una bambina, sola, stanca e, sì, anche impaurita. Le venne un groppo in gola al pensiero di aver fatto tutta quella fatica per niente. Il gigante intanto se ne stava in silenzio, immobile come un colosso, e nel frattempo la cerimonia sulla costa giungeva al termine: tutti si stavano dileguando insieme al fumo del rogo. Anche la famiglia reale ritornava sui suoi passi, seguita da Roikos e dai suoi uomini. 

Atalanta vide sfuggirle davanti agli occhi la sua occasione di fare giustizia e sentì montare dentro una rabbia furibonda, che sfogò tutta sul gigante, incurante delle conseguenze.
«Maledetto, stupido bestione! Hai rovinato tutto! Perché mi hai fermato?! La mia freccia non era per te! Che Zeus ti fulmini!». In preda all’ira scagliò un calcio dritto nello stomaco dell’uomo, ma questi non sembrò accusare il colpo, non più di quanto avrebbe fatto per il morso di una zanzara.

«Ah, davvero? – rispose, divertito – E per chi era la tua freccia, piccola Artemide? Ammesso che fossi riuscita a scagliarla...».

Atalanta ignorò la presa in giro: ormai priva di forze, penzolava inerme dalla mano del gigante. «Loro...Hanno ucciso i miei genitori…e anche mio fratello…». Perché glielo stesse rivelando, non lo sapeva. Di certo non le avrebbe creduto, o peggio, l'avrebbe portata dritta tra le fauci di Neleo e del suo uomo-rettile. Ma che importava, ormai? Aveva fallito. 

Quasi non si accorse di ricadere sull’erba, quando il gigante mollò la presa sul suo braccio livido. «Chi ha fatto questo?», si sentì domandare. Si voltò sorpresa...e inferocita.

«Neleo e quel viscido serpente che gli sta accanto, Roikos. Il tuo re non è altro che un bugiardo e un assassino!». Fulminò il gigante con lo sguardo, pregustando lo sconvolgimento che quelle parole gli avrebbero causato. 

Invece niente, l’uomo mantenne la sua espressione tranquilla, anzi, sembrava guardarla con una punta di compassione. E questo la fece infuriare ancora di più.

«Il mio re oggi se l’è preso il fuoco, ragazzina. Esone, figlio di Creteo, ora vaga tra le anime dell’Ade.– le rispose l'uomo-orso – Pelias ha distrutto la sua casa, ucciso i suoi uomini, imprigionato la sua sposa, e immagino abbia ucciso anche il piccolo principe Iason, quello che oggi hai visto ardere sulla pira. Ha nascosto le sue empietà dietro la storiella dell’incendio e del fumo.».

Atalanta ascoltava il gigante senza riuscire a percepire l’ombra dell’emozione nella sua voce: né rabbia, né tristezza, né pietà. Soltanto un profondo distacco e un vago sentore di rispetto per colui che aveva chiamato “il mio re”. Non riusciva a capire se ignorasse la verità o se la stesse deliberatamente nascondendo. Ad ogni modo, gliela avrebbe rivelata lei.

«Quello che hai visto bruciare sul rogo oggi, non era il tuo principe. Era mio fratello!». Ed eccola lì la verità, istantanea e potente come una scudisciata. Il gigante non sembrò risentirne. Sollevò appena uno dei suoi folti sopraccigli, tutto il resto rimase immobile. Ma Atalanta non demorse. «Neleo e i suoi uomini sono venuti a strapparlo ai miei genitori due giorni fa. Hanno fatto irruzione nella nostra casa, hanno rapito mio fratello, hanno ucciso mio padre e mia madre, mi hanno…». 

Solo a quel punto le parole non vollero più uscirle dai denti, nonostante la furia crescente. Perché avrebbe dovuto raccontare il suo dolore all’uomo che l’aveva ostacolata? Doveva solo andarsene di lì. Forse sarebbe riuscita a trovare Neleo e Roikos, forse non era ancora troppo tardi. Libera dalla stretta del gigante, si riappropriò del pugnale che giaceva ai suoi piedi e lo puntò minacciosa contro di lui, pronta a infilzarlo, se avesse cercato di fermarla di nuovo.

Ma il gigante non lo fece. «Come fai a dire che quello è tuo fratello?», le chiese invece, stringendo i suoi già piccoli occhi scuri.

Atalanta non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Perché l’ho visto, bestione! – urlò - Ho visto quell’uomo, Neleo, uccidere la mia famiglia! L’ho sentito parlare con quel Pelias della sua impresa, l’ho sentito offrirgli il cadavere di mio fratello per questa farsa di funerale! Vuoi che me ne vada in giro a inventare storie e a cercare vendetta senza motivo?! Io non avrei mai voluto mettere piede in questa lurida terra di assassini!».

Niente. Né gli insulti, né il pugnale stretto in mano, né la lampante evidenza della sua verità riuscivano a smuovere quella stolida faccia da orso. Eppure l'enorme petto villoso del gigante aveva cominciato a espandersi e contrarsi come un mantice in rumorosi, accelerati respiri. 

Atalanta si ricordò di un cinghiale che aveva ucciso l'anno prima insieme a suo padre e che, intrappolato, aveva cominciato a respirare allo stesso modo, poco prima di essere trafitto da due frecce.

Diversamente dal cinghiale, però, il gigante non si dimenava, né emetteva disperati gruniti. Inaspettatamente, invece, voltò le spalle ad Atalanta, si calcò di nuovo il cappello in testa e riprese a scendere il crinale della collina. 

«Vieni con me.». Le ordinò, secco. 

Continua...