sabato 31 gennaio 2015

Cacciatori e prede (1)

Il forte odore di muschio sulle rocce si mischiava alla fragranza della terra appena inumidita dalla rugiada, e della resina, che trasudava in gocce scintillanti dalle cortecce di frassini e ippocastani. Etandro si sentiva sempre inebriato da quella armonia di profumi, come se in essa si celasse il respiro della foresta. Il cacciatore si lasciava invadere da quell’essenza, gli acuiva i sensi, rendendolo un tutt’uno con ogni albero, ogni roccia, con il vento stesso, una creatura simile alle Driadi, compagne di Artemide. E allora riusciva a scorgere il movimento di un’ombra a cento passi di distanza, percepiva il flebile fruscio di una foglia e distingueva le tracce di molte prede diverse. I polpastrelli sfioravano la corda dell’arco, sentendone ogni vibrazione mentre le dita e il braccio la tendevano, finché la piuma della freccia non gli accarezzava la guancia.
L’occhio puntò il bersaglio, Etandro inspirò e trattenne il fiato, il braccio pronto a scoccare. Ma prima che la mano rilasciasse la corda, l’orecchio udì il sibilo di un’altra freccia proveniente dalla sua destra, che con incredibile precisione andò a conficcarsi nella gola della preda. Le grandi corna del cervo crollarono con uno schianto nel sottobosco e uno spruzzo di sangue sgorgò dal collo muscoloso. Il cacciatore rilassò le braccia, tenendo la freccia incoccata, e si voltò verso l’origine del colpo. Non un’ombra, non un suono.

«Atalanta!», gridò l’uomo, rivolto a una macchia d’alberi deserta. 
Una risatina compiaciuta uscì da dietro un tronco. 
«Lo sai che non mi piace quando mi rubi le prede! Vieni fuori di lì!», continuò il cacciatore, fingendosi offeso. 
La risatina si fece più forte, finché l’artefice del furto non uscì allo scoperto, tenendosi la pancia con una mano e stringendo un piccolo arco nell’altra.
Era una bambina di undici o dodici anni, con una folta chioma rosso fuoco e il viso pieno di lentiggini. Gli occhi castani scintillavano di lacrime per il troppo ridere. 
«Ti ho battuto di nuovo, papà-aquila!», esclamò vittoriosa. Da quando aveva scoperto il significato del nome di suo padre, non faceva che chiamarlo con quel nomignolo. 
Etandro prese un’espressione contrariata, ma solo perché la bambina godesse ancora di più della sua vittoria. Poi con un gesto della mano la richiamò a sé e le sorrise, pieno di orgoglio. «Andiamo, ladruncola, aiutami a legare la tua preda.»
Atalanta saltellò tra gli alberi, scavalcando le rocce con l’agilità di un capriolo, e con fare trionfante si arrampicò sull’enorme carcassa del cervo, in attesa che il padre la raggiungesse. Quando le fu accanto, Etandro le pose una mano sulla testa rossiccia e strizzò uno dei suoi grandi occhi color miele. 

Quegli occhi erano la ragione del suo nome: Etandro, “uomo aquila”. Non era il nome scelto per lui da suo padre, era stata la gente della valle a chiamarlo così, visto che lui non si era mai presentato. Il cacciatore scendeva a Iolkòs dalla sua casa tra i monti soltanto un paio volte l’anno, in autunno e alla fine della primavera. Gli abitanti lo vedevano arrivare carico di pelli e andarsene dopo qualche giorno con sacchi di grano, frecce e talvolta qualche bambola o un cavallino di legno. Durante la sua permanenza, il cacciatore non parlava con nessuno, se non per vendere le sue pelli o comprare la sua roba, e del resto il suo sguardo scontroso toglieva a chiunque la voglia di parlare con lui. Si aggirava per i banchi del mercato a viso basso, evitando ogni contatto, simile a  un fantasma attento a non lasciare segni del suo passaggio. Concludeva i suoi affari comunicando a gesti rapidi e, se qualcosa lo infastidiva, palesava il suo pensiero con un’occhiata raggelante, che lanciava al mal capitato da sotto il cappuccio del suo mantello, con i suoi occhi da rapace. 
Ma quando tornava alla sua casa tra i monti, le cose erano diverse. Rideva con i suoi figli, baciava sua moglie, qualche volta persino cantava. E ovviamente andava a caccia. Quello era il momento che preferiva e, da quando Atalanta aveva cominciato a seguirlo, la sua felicità si era moltiplicata. 

«Una bambina dovrebbe imparare a ricamare, non a uccidere e scuoiare animali!», lo rimproverava spesso sua moglie. 
Ma Atalanta lo seguiva con tanta ostinazione, che Etandro non aveva il cuore di deluderla lasciandola a casa. L'ultima volta che lo aveva fatto, lei non gli aveva rivolto la parola per due giorni. E poi non poteva nascondere di provare una certa soddisfazione a vedere la bambina così devota ai suoi insegnamenti. Avrebbe detto che quel talento con arco e frecce lo aveva ereditato da lui, se Atalanta non fosse stata adottata.
Erano passati circa due lustri da quando Etandro e sua moglie l'avevano trovata, sporca, urlante e rossa, nel bel mezzo del bosco. Chi l'aveva abbandonata aveva avuto appena la decenza di coprirla con una copertina e metterle un braccialetto al polso. Era stato il cacciatore a raccoglierla e da allora non era più riuscito a lasciarla andare.
Nè avrebbe potuto, visto che Atalanta lo seguiva ovunque, quasi temesse di essere abbandonata di nuovo. Lei sapeva, lo aveva capito molto presto, ancor prima che i suoi genitori glielo rivelassero il giorno in cui era nato il suo fratellino. Lui aveva gli occhi color miele di suo padre e i capelli neri di sua madre, neanche un ciuffo rosso, neppure una lentiggine sulle guance. Etandro non avrebbe mai dimenticato l'espressione di Atalanta quando gli aveva chiesto spiegazioni, così attenta, concentrata. «Papà-aquila, da dove vengo io?».

«Dalla pancia della mamma.», le aveva risposto lui. Forse aveva tentennato un po' troppo.

«No, dimmi la verità! Io sono diversa!», aveva insistito lei. Ma non c'era tristezza o rabbia nella sua voce, solo una forte curiosità. E quando Etandro le aveva detto la verità, lei aveva fatto spallucce e aveva chiesto quando sarebbero tornati a caccia.

Un anno e molte prede dopo, Atalanta camminava impettita accanto ad Etandro, aiutandolo a trascinare la pesante carcassa del cervo, con la stessa espressione risoluta sul volto lentigginoso. Canticchiava e fischiettava, soffiando via dal volto di tanto in tanto un ciuffo di capelli arruffati. 

«Papà-aquila, pensi che la mamma sarà contenta della preda?», chiese con un accento vanitoso.

Etandro sorrise. «Certo! Avremo carne per molto tempo e potrò vendere bene la sua pelle. E poi, guarda che belle corna! Artemide ci è stata favorevole oggi!».
Atalanta continuava a guardarlo, come se si aspettasse qualcos’ altro.

 «Sei stata bravissima. – continuò suo padre – Ma rimani comunque una ladra!» e le fece una linguaccia.

La bambina riprese a ridere, divertita da una smorfia così rara in quel viso squadrato. «Speriamo che il marmocchio non si spaventi e non cominci a piangere e urlare, come al solito!», commentò con un’espressione severa, poco adatta al suo volto da bambina.

«Ti ho detto tante volte di non chiamare così tuo fratello! – la rimproverò Etandro – Alla sua età anche tu non facevi che piangere e urlare. Io e tua madre non abbiamo chiuso occhio per un anno intero!».

«Io non piangevo, imitavo i cinghiali per cacciarli!», ribatté Atalanta, arricciando il naso.
Il cacciatore non riuscì a trattenersi davanti a quel faccino imbronciato e con una fragorosa risata si avventò sulla figlia, arruffandole i capelli con una mano e solleticandole i fianchi con l’altra. La foresta si riempì della loro allegria, più di un fringuello volò via, allarmato dagli inaspettati strepiti.

Tra le risate e i gridolini di sua figlia, un altro suono attirò l’attenzione di Etandro. Era lontano, estraneo ai rumori del bosco. Come un cane che volge l’orecchio al richiamo del padrone, il cacciatore si bloccò e fece cenno alla figlia di fare lo stesso. «Sst! Silenzio, Atalanta.». 

Istintivamente abbassò la voce, quasi temesse di essere udito. La bambina subito si zittì, guardando il padre turbata. Stette anche lei ad ascoltare, ma tutto le sembrava tranquillo: nella foresta aleggiava la solita quiete, interrotta soltanto dal cinguettio di qualche usignolo svolazzante tra i rami.

Etandro rimase ritto in piedi, con i muscoli tesi e gli occhi rivolti a un punto indefinito davanti a sé, in direzione della sua casa. «Mi era parso di…», iniziò a dire, ma di nuovo quel suono, un nome, il grido di una voce inconfondibile, tornò a confermare i suoi timori.

«È la mamma!», esclamò Atalanta. Ma Etandro stava già correndo in direzione delle grida. Sentì la bambina stargli dietro per un po', i suoi passetti affrettati, il suo fiato accelerato. Suoni sempre più lontani, ma lui non poteva rallentare ad aspettarla. Scavalcava radici, evitava gli alberi con l'agilità di un leone di montagna, ma Etandro avrebbe voluto avere le ali di un'aquila.

Continua..

domenica 18 gennaio 2015

Nuove vite (2)

Nel patio antistante la sala del trono, immerso nella pace intatta della notte, Eeta misurava a passi lenti i sentieri di pietra che si inoltravano tra aiuole e fontane. File di piccole fiaccole li costeggiavano e li illuminavano con la loro luce tremolante.
Testa bassa, una mano nell'altra dietro la schiena, il re sorbiva a pieni polmoni la leggera brezza notturna, così rara nella canicola della stagione. Eppure non sembrava goderne: da ore attendeva lì la notizia della nascita del suo erede. Un maschio, avevano detto gli indovini, sangue forte, degno di suo padre. Ma anche la prima volta, tredici anni prima, erano stati altrettanto veloci a dare lo stesso responso. E poi era nata la principessa Calcìope.

«Se anche questa volta è una femmina, giuro sugli dei che farò sgozzare quei ciarlatani e ne farò appendere i cadaveri agli Alberi dei Morti!». Parlava più con se stesso che con la silenziosa figura a pochi passi dietro di lui. 
Teukros non era un consigliere, il suo unico compito era quello di proteggere il re e guidare i suoi soldati. Eppure Eeta spesso preferiva rivolgere a lui le sue lamentele piuttosto che ai melliflui, annuenti individui che lo circondavano da mattina a sera.

Da sei anni Teukros stava al suo fianco, da quattro sotto il titolo di lawaghetas, capo dell’esercito. Era il più giovane, l’ultimo arrivato tra gli uomini di Eeta, ma il re non aveva pensato due volte a mettere da parte il vecchio comandante per dare a lui quell'incarico. Teukros non ne ricordava più neanche il nome, ma da ragazzo era poco sensibile a ciò che non lo riguardava direttamente. 
Era il difetto che suo padre gli rimproverava più spesso, prima che Eeta lo prendesse con sé, ovviamente. “Non hai rispetto per i miei affari!”, gli urlava contro. “Ti importa soltanto di andare in giro a far vedere quanto sei forte e non ti importa se poi tua madre deve lavare via il sangue dalle tue vesti!”. Come se a lui importasse, invece. Per suo padre, sua madre non era altro che una schiava, Teukros lo sapeva bene. E quindi che continuasse pure a urlare. Lui sapeva badare a se stesso e con le sue sole forze era riuscito ad arrivare dove era. Gli era bastato sbattere un po’ tre delle guardie di Eeta, e il re era rimasto così impressionato da accoglierlo nel suo palazzo, addestrarlo e dargli una nuova vita, lontano dai noiosi affari per mare di suo padre e dagli occhi lacrimosi di sua madre.
  
"Sarebbe un imperdonabile spreco lasciare che un simile spirito guerriero resti confinato a una vita da attaccabrighe.", aveva detto Eeta a suo padre, quando lui gli aveva abbracciato le ginocchia chiedendo misericordia. Aveva paura che il re avrebbe mandato a morte il suo unico figlio, dopo tutto. Ma le cose erano andate molto diversamente. Teukros si era guadagnato un potere enorme, secondo solo a quello del re, battaglia dopo battaglia, conquista dopo conquista. Tutti, a cominciare dai suoi soldati, lo avevano sempre ritenuto troppo giovane per tutto quel potere, e più di uno gli aveva lanciato truci sguardi di invidia. Ma a Teukros non importava, stava sempre zitto, guardandosi intorno con quei suoi occhi da felino, proprio come in quella notte di spasmodica attesa.

«Se è una femmina – continuò Eeta coi nervi a fior di pelle – ripudierò mia moglie in meno di un respiro. Una donna incapace di partorire un erede al suo re non ha il diritto di essere chiamata regina! La metterò sulla prima nave per Creta e la manderò a fare compagnia a quella vacca di mia sorella Pasifae!». Teukros, alle sue spalle, non riuscì a trattenere un mezzo sorriso sentendo l’appellativo usato per la regina di Creta, moglie del potente Minosse, nota in tutte le terre bagnate dal mare per la sua insolita passione per i tori…

Il re si passò una mano tra i capelli, ancora folti e di un colore fulvo dai vivi riflessi ramati, benché l’età gli avesse già appesantito il corpo. In realtà Teukros si chiedeva spesso quanti anni avesse, ma nessuno sembrava saperlo. Eeta era giunto in Colchide prima di quanto il più vecchio degli abitanti riuscisse a ricordare. Si diceva che fosse figlio del dio Sole e, certo, doveva essere vero se, arrivato dal mare con appena una manciata di uomini, era riuscito in pochi anni a conquistare tutta la terra che si estendeva dal mare sino alle sorgenti del fiume, che gli indigeni chiamavano Phasis.

Per l’ennesima volta il re si stropicciò gli occhi, arrossati dalla stanchezza e dal fumo delle fiaccole, si voltò e tornò sui suoi passi. Si fermò accanto a Teukros, ma non guardava lui. Il suo sguardo annebbiato contemplava l’imponente sagoma del suo palazzo. 
«Guarda, Teukros. – gli disse senza distogliere lo sguardo - Prima del mio arrivo, qui era solo deserto e arbusti. Io ho fatto tutto questo, ho portato la magnificenza del mio palazzo e dei miei templi dove prima non c’erano che case di fango e paglia. Ho donato la vita a questa terra arida, rendendola fertile e rigogliosa. Ho domato questo popolo di selvaggi, che non conoscono le leggi di Zeus e cocciutamente si ostinano a praticare i loro strani riti e ad adorare i loro mostruosi dei per metà bestie…Stolti animali…» Il labbro superiore di sollevò in una spontanea smorfia di disgusto. «Eppure tutto il mio duro lavoro, tutto il mio potere dipendono da ciò che uscirà dal ventre di una donna! Gli dei non potevano dare all'uomo maledizione più grande…».

A quel punto forse Teukros sarebbe dovuto intervenire, ma con un tempismo perfetto alle loro spalle giunse la voce di Thalia, spezzata dal respiro corto. «Mio signore, - ansimò la ragazza – la regina…ha partorito…». 

Eeta si voltò di scatto, irritato: «Su, parla, piccola selvaggia! Come sta mio figlio? È un maschio, vero?».

Quando il re fece un passo verso di lei, Thalia istintivamente arretrò. «Sì, mio signore…un maschio sano e forte…ma…». 

La sonora risata di soddisfazione del re coprì quell’ultimo “ma”. «Padre Sole, ti ringrazio!», esclamò, levando le braccia al cielo. 

Thalia, però, aveva qualcosa da aggiungere. Iniziò a tremare visibilmente. «Perdonami, mio signore…ma la padrona stanotte ha partorito due figli: un maschio…e una femmina. Due gemelli, mio re.». Aveva pronunciato le ultime parole tutto d’un fiato. 

Eeta si bloccò esterrefatto, fissando gli occhi sbarrati prima su Thalia, sempre a testa bassa, e poi su Teukros, incontrando il suo sorriso d’augurio. Ma il re non sorrideva.
Era risaputo cosa poteva accadere con una doppia nascita e Teukros riuscì a vedere quel dubbio affiorare sulla fronte aggrottata di Eeta. «La…la regina è…». 
Thalia si affrettò a completare la frase: «È incolume, padrone: la regina Idia sta bene. È stremata, ma viva.».
Eeta si limitò ad annuire e quell’attimo di preoccupazione fu presto cancellato. «Bene, puoi andare.», disse, agitando la mano come se cacciasse via una mosca.

Tremando un po’ meno, Thalia si inchinò e si voltò per tornare dalla sua padrona e i due neonati. 
Nel voltarsi, la tunica della ragazza fu sollevata da un improvvisa folata di vento. Il suo fruscio attirò lo sguardo, fino a poco prima indifferente, di Eeta: il riflesso soffuso delle fiaccole accentuava le morbide curve della ragazza, che oscillavano con grazia sotto le vaghe trasparenze del lino, mentre la veste, da qualche mese divenuta un po’ troppo stretta, metteva in risalto le forme ancora acerbe del suo corpo snello. 
Il re arricciò le labbra, come per assaporare una coppa di vino e miele. «Schiava!», chiamò.
Thalia ebbe un tuffo al cuore, ma si fermò obbediente e si voltò di nuovo, tentando di apparire tranquilla. «Comanda, padrone.».
«Andrò a vedere mio figlio – continuò Eeta – e poi tornerò nel mio talamo. Voglio trovarti lì quando arriverò, in ordine e ben pulita.». Senza aggiungere altro, si allontanò in fretta.

Teukros fece per seguirlo, ma i suoi passi esitarono quando si trovò accanto alla piccola schiava, che si accasciava tra le aiuole scossa da brividi. Il capo delle guardie si tolse la clamide che teneva affibbiata alla spalla sinistra e delicatamente la pose attorno alle braccia della ragazza. 
«Vai da Bedisa, nelle cucine, - le sussurrò in un orecchio – e fatti dare una coppa di vino con semi di papavero. Dille che ti ho mandato io. Durerà poco, piccola, e non sentirai niente.». Dopo aver ricevuto un silenzioso cenno di assenso del capo, Teukros si allontanò sui passi di Eeta.
Prima di immergersi nell’oscurità del megaron, il lawaghetas si voltò di nuovo a guardare la piccola schiava. Se ne stava immobile tra i fiori di ibisco che schiudevano appena i loro petali, guardando fisso davanti a sé e stringendo la sua clamide. Per un attimo quegli occhi pieni di lacrime gli ricordarono quelli di sua madre. 

domenica 4 gennaio 2015

Nuove vite (1)

Lo strazio di Idia riecheggiava tra le mura del palazzo. Le doglie erano iniziate al sorgere del sole e duravano ancora al sopraggiungere della sera. Dopo il tramonto, il dolore si era fatto insopportabile, ma la regina rifiutava qualsiasi droga le maie volessero somministrarle. Aveva aspettato quel momento per quasi nove mesi e voleva essere lucida, quando sarebbe arrivato suo figlio. Ma mettere al mondo la sua creatura si stava rivelando più difficile di quanto ricordasse. Sei maie circondavano il suo letto, intonando preghiere propiziatrici per allontanare il male dal corpo della regina. Thalia, la sua ancella, le stava accanto, tergendole il sudore dalla fronte con un panno, mentre una donna stava ai piedi del letto per aiutarla nel parto. Era Dafne, la nutrice.
Era una donna alta ed esile, fragile a un primo sguardo, ma autoritaria nei gesti e nella voce. Doveva aver visto non più di trenta inverni ed era tra le guaritrici più esperte della Grecia, giunta in Colchide anni prima, per assistere la regina alla sua prima gravidanza dietro volere di Eeta. Non aveva mai preso il velo delle nozze, né aveva figli propri, ma si diceva che avesse fatto nascere centinaia di bambini, salvandone sempre le madri. Aveva uno sguardo costantemente esausto, a volte perso nel vuoto, forse per via del suo incessante lavoro di levatrice, ma i suoi modi schietti e i movimenti decisi avevano sempre un effetto rassicurante sulle sue pazienti. Eppure in quel momento persino il volto di Dafne tradiva una profonda preoccupazione: il bambino aveva difficoltà a lasciare il corpo della madre, ormai stremata. 

«Coraggio, mia signora! – la nutrice incoraggiò la regina – Riesco a vedere la testa! Spingi con tutte le tue forze e presto sarà finita!».
Idia conficcò le unghie nelle lenzuola fin quasi a strapparle e, rovesciando la testa indietro, lanciò un grido così acuto da far tremare le pareti della casa. 
«Resisti, padrona!» Thalia le reggeva le spalle e anche lei cercava di confortarla con la sua voce sottile.
Ancora un urlo. Poi un altro. Il viso della regina cominciava a farsi livido per lo sforzo. La litania delle maie era sempre più concitata.
«Eccolo, mia signora!» Dafne finalmente distese la fronte e, tenendo saldamente il neonato tra le mani, diede sfogo al suo sollievo in una risata di petto.
Idia quasi non riusciva a crederci. «Come sta? Che cos’è?», chiese, dimenticando per un attimo il dolore lancinante al basso ventre. 
«Sta benissimo, signora – rispose la nutrice, porgendo il bambino alla madre – Ed è un bel maschio, forte e sano. Senti come urla!».
Il piccolo, strappato al tepore del ventre materno, vagiva con una vocina stridula. Idia lo accolse tra le braccia con un sorriso sofferente, mentre Dafne recideva il cordone ombelicale. 

Il bambino adesso emetteva dei dolci mugolii, stropicciandosi gli occhi ancora chiusi con piccolissime mani raggrinzite. Era il momento che Dafne preferiva, guardare la madre in quell'espressione di estasi che a volte le provocava una piccola fitta di invidia alla bocca dello stomaco. Ma stavolta la nutrice non poteva abbandonarsi alla contemplazione.
Qualcosa non andava come doveva. Dafne continuava ad esaminare l’intimità della regina, aspettando che il suo corpo si liberasse della sacca in cui il bambino era cresciuto. Restò lì ad aspettare a lungo, percependo i propri battiti accelerare ogni due respiri. Se la madre non fosse riuscita a liberarsi, avrebbe continuato a perdere sangue fino a morirne. 
“E poi un ventre così grande per un esserino così piccolo…”, osservò tra sé e sé la nutrice. In effetti, a guardarlo bene, il neonato non era più grande dell’avambraccio della madre. Dafne non aveva comunque intenzione di turbare la regina con le sue preoccupazioni. Finalmente, dopo aver contemplato per un po’ suo figlio e averlo consegnato alle maie perché lo lavassero, si stava abbandonando al riposo, poggiando la testa sui cuscini fradici di lacrime e sudore. 

Anche le maie si erano concesse una tregua e mentre una di loro si occupava del principe neonato, le altre iniziarono a rassettare la stanza, aiutate da Thalia, che correva da un angolo all'altro della stanza come un furetto. Dafne, invece, non si muoveva, restò in attesa davanti alle gambe della regina.
Aspettò e aspettò ancora, finché il tocco di una mano sulla spalla la distolse da quell'immobile attesa. Era una delle maie, la più anziana, e Dafne poté leggerle in volto la sua stessa preoccupazione. La nutrice annuì, ma l'unico suono che emise fu quello di un sospiro. Doveva intervenire per aiutare la regina a espellere i resti della gravidanza, così le poggiò una mano sul ventre. 
In quel momento Idia fu strappata al suo sonno ristoratore da una nuova, acuta fitta di dolore. Sentì le viscere contrarsi, un rauco lamento le grattò la gola. Per un istante Dafne temette di averle fatto del male, ma quando guardò di nuovo tra le gambe della regina, capì.

«Mia signora – balbettò, gli occhi sgranati in un vivo stupore – C’è…c’è un altro bambino dentro di te!». Un prodigio che poche nutrici avevano la fortuna…o la disgrazia di vedere.
Il volto di Idia assunse lo stesso colore delle lenzuola. Due gemelli! Rare erano le donne che riuscivano a sopravvivere al parto di due bambini, lo sapeva bene. Il cuore stretto dalla paura, non riusciva a pensare ad altro che ai suoi figli. Non voleva abbandonarli. Non poteva.
Invocò Artemide, la Vergine Cacciatrice, protettrice delle donne in travaglio. Invocò Hera, dea del matrimonio e Demetra, dea della fertilità. Invocò tutti i Dodici Dei, mentre il dolore delle contrazioni tornava ad aumentare. 
Dafne si scostò una ciocca di capelli neri dalla fronte imperlata di sudore e si rimise all’opera, pronta ad affrontare la prova. «Coraggio, mia regina: devi ricominciare a spingere. Andrà tutto bene, te lo prometto.». Ma stavolta parlò con molta meno sicurezza. 

Idia si rialzò sui gomiti, mordendosi a sangue le labbra, mentre Thalia la raggiungeva di nuovo a stringerle una mano tra le proprie. La fatica era spossante. Il dolore accecante. Tutte le visioni notturne degli ultimi mesi le tornarono in mente all’improvviso e con esse tutta l’angoscia, che a stento era riuscita a dimenticare. Non le restò che volgere gli occhi al cielo e supplicare con la voce rotta: «Madre Teti, aiutami!». 
Un ultimo, sovrumano grido ed il pianto di un altro neonato si unì a quello della madre.

Continua...