sabato 31 gennaio 2015

Cacciatori e prede (1)

Il forte odore di muschio sulle rocce si mischiava alla fragranza della terra appena inumidita dalla rugiada, e della resina, che trasudava in gocce scintillanti dalle cortecce di frassini e ippocastani. Etandro si sentiva sempre inebriato da quella armonia di profumi, come se in essa si celasse il respiro della foresta. Il cacciatore si lasciava invadere da quell’essenza, gli acuiva i sensi, rendendolo un tutt’uno con ogni albero, ogni roccia, con il vento stesso, una creatura simile alle Driadi, compagne di Artemide. E allora riusciva a scorgere il movimento di un’ombra a cento passi di distanza, percepiva il flebile fruscio di una foglia e distingueva le tracce di molte prede diverse. I polpastrelli sfioravano la corda dell’arco, sentendone ogni vibrazione mentre le dita e il braccio la tendevano, finché la piuma della freccia non gli accarezzava la guancia.
L’occhio puntò il bersaglio, Etandro inspirò e trattenne il fiato, il braccio pronto a scoccare. Ma prima che la mano rilasciasse la corda, l’orecchio udì il sibilo di un’altra freccia proveniente dalla sua destra, che con incredibile precisione andò a conficcarsi nella gola della preda. Le grandi corna del cervo crollarono con uno schianto nel sottobosco e uno spruzzo di sangue sgorgò dal collo muscoloso. Il cacciatore rilassò le braccia, tenendo la freccia incoccata, e si voltò verso l’origine del colpo. Non un’ombra, non un suono.

«Atalanta!», gridò l’uomo, rivolto a una macchia d’alberi deserta. 
Una risatina compiaciuta uscì da dietro un tronco. 
«Lo sai che non mi piace quando mi rubi le prede! Vieni fuori di lì!», continuò il cacciatore, fingendosi offeso. 
La risatina si fece più forte, finché l’artefice del furto non uscì allo scoperto, tenendosi la pancia con una mano e stringendo un piccolo arco nell’altra.
Era una bambina di undici o dodici anni, con una folta chioma rosso fuoco e il viso pieno di lentiggini. Gli occhi castani scintillavano di lacrime per il troppo ridere. 
«Ti ho battuto di nuovo, papà-aquila!», esclamò vittoriosa. Da quando aveva scoperto il significato del nome di suo padre, non faceva che chiamarlo con quel nomignolo. 
Etandro prese un’espressione contrariata, ma solo perché la bambina godesse ancora di più della sua vittoria. Poi con un gesto della mano la richiamò a sé e le sorrise, pieno di orgoglio. «Andiamo, ladruncola, aiutami a legare la tua preda.»
Atalanta saltellò tra gli alberi, scavalcando le rocce con l’agilità di un capriolo, e con fare trionfante si arrampicò sull’enorme carcassa del cervo, in attesa che il padre la raggiungesse. Quando le fu accanto, Etandro le pose una mano sulla testa rossiccia e strizzò uno dei suoi grandi occhi color miele. 

Quegli occhi erano la ragione del suo nome: Etandro, “uomo aquila”. Non era il nome scelto per lui da suo padre, era stata la gente della valle a chiamarlo così, visto che lui non si era mai presentato. Il cacciatore scendeva a Iolkòs dalla sua casa tra i monti soltanto un paio volte l’anno, in autunno e alla fine della primavera. Gli abitanti lo vedevano arrivare carico di pelli e andarsene dopo qualche giorno con sacchi di grano, frecce e talvolta qualche bambola o un cavallino di legno. Durante la sua permanenza, il cacciatore non parlava con nessuno, se non per vendere le sue pelli o comprare la sua roba, e del resto il suo sguardo scontroso toglieva a chiunque la voglia di parlare con lui. Si aggirava per i banchi del mercato a viso basso, evitando ogni contatto, simile a  un fantasma attento a non lasciare segni del suo passaggio. Concludeva i suoi affari comunicando a gesti rapidi e, se qualcosa lo infastidiva, palesava il suo pensiero con un’occhiata raggelante, che lanciava al mal capitato da sotto il cappuccio del suo mantello, con i suoi occhi da rapace. 
Ma quando tornava alla sua casa tra i monti, le cose erano diverse. Rideva con i suoi figli, baciava sua moglie, qualche volta persino cantava. E ovviamente andava a caccia. Quello era il momento che preferiva e, da quando Atalanta aveva cominciato a seguirlo, la sua felicità si era moltiplicata. 

«Una bambina dovrebbe imparare a ricamare, non a uccidere e scuoiare animali!», lo rimproverava spesso sua moglie. 
Ma Atalanta lo seguiva con tanta ostinazione, che Etandro non aveva il cuore di deluderla lasciandola a casa. L'ultima volta che lo aveva fatto, lei non gli aveva rivolto la parola per due giorni. E poi non poteva nascondere di provare una certa soddisfazione a vedere la bambina così devota ai suoi insegnamenti. Avrebbe detto che quel talento con arco e frecce lo aveva ereditato da lui, se Atalanta non fosse stata adottata.
Erano passati circa due lustri da quando Etandro e sua moglie l'avevano trovata, sporca, urlante e rossa, nel bel mezzo del bosco. Chi l'aveva abbandonata aveva avuto appena la decenza di coprirla con una copertina e metterle un braccialetto al polso. Era stato il cacciatore a raccoglierla e da allora non era più riuscito a lasciarla andare.
Nè avrebbe potuto, visto che Atalanta lo seguiva ovunque, quasi temesse di essere abbandonata di nuovo. Lei sapeva, lo aveva capito molto presto, ancor prima che i suoi genitori glielo rivelassero il giorno in cui era nato il suo fratellino. Lui aveva gli occhi color miele di suo padre e i capelli neri di sua madre, neanche un ciuffo rosso, neppure una lentiggine sulle guance. Etandro non avrebbe mai dimenticato l'espressione di Atalanta quando gli aveva chiesto spiegazioni, così attenta, concentrata. «Papà-aquila, da dove vengo io?».

«Dalla pancia della mamma.», le aveva risposto lui. Forse aveva tentennato un po' troppo.

«No, dimmi la verità! Io sono diversa!», aveva insistito lei. Ma non c'era tristezza o rabbia nella sua voce, solo una forte curiosità. E quando Etandro le aveva detto la verità, lei aveva fatto spallucce e aveva chiesto quando sarebbero tornati a caccia.

Un anno e molte prede dopo, Atalanta camminava impettita accanto ad Etandro, aiutandolo a trascinare la pesante carcassa del cervo, con la stessa espressione risoluta sul volto lentigginoso. Canticchiava e fischiettava, soffiando via dal volto di tanto in tanto un ciuffo di capelli arruffati. 

«Papà-aquila, pensi che la mamma sarà contenta della preda?», chiese con un accento vanitoso.

Etandro sorrise. «Certo! Avremo carne per molto tempo e potrò vendere bene la sua pelle. E poi, guarda che belle corna! Artemide ci è stata favorevole oggi!».
Atalanta continuava a guardarlo, come se si aspettasse qualcos’ altro.

 «Sei stata bravissima. – continuò suo padre – Ma rimani comunque una ladra!» e le fece una linguaccia.

La bambina riprese a ridere, divertita da una smorfia così rara in quel viso squadrato. «Speriamo che il marmocchio non si spaventi e non cominci a piangere e urlare, come al solito!», commentò con un’espressione severa, poco adatta al suo volto da bambina.

«Ti ho detto tante volte di non chiamare così tuo fratello! – la rimproverò Etandro – Alla sua età anche tu non facevi che piangere e urlare. Io e tua madre non abbiamo chiuso occhio per un anno intero!».

«Io non piangevo, imitavo i cinghiali per cacciarli!», ribatté Atalanta, arricciando il naso.
Il cacciatore non riuscì a trattenersi davanti a quel faccino imbronciato e con una fragorosa risata si avventò sulla figlia, arruffandole i capelli con una mano e solleticandole i fianchi con l’altra. La foresta si riempì della loro allegria, più di un fringuello volò via, allarmato dagli inaspettati strepiti.

Tra le risate e i gridolini di sua figlia, un altro suono attirò l’attenzione di Etandro. Era lontano, estraneo ai rumori del bosco. Come un cane che volge l’orecchio al richiamo del padrone, il cacciatore si bloccò e fece cenno alla figlia di fare lo stesso. «Sst! Silenzio, Atalanta.». 

Istintivamente abbassò la voce, quasi temesse di essere udito. La bambina subito si zittì, guardando il padre turbata. Stette anche lei ad ascoltare, ma tutto le sembrava tranquillo: nella foresta aleggiava la solita quiete, interrotta soltanto dal cinguettio di qualche usignolo svolazzante tra i rami.

Etandro rimase ritto in piedi, con i muscoli tesi e gli occhi rivolti a un punto indefinito davanti a sé, in direzione della sua casa. «Mi era parso di…», iniziò a dire, ma di nuovo quel suono, un nome, il grido di una voce inconfondibile, tornò a confermare i suoi timori.

«È la mamma!», esclamò Atalanta. Ma Etandro stava già correndo in direzione delle grida. Sentì la bambina stargli dietro per un po', i suoi passetti affrettati, il suo fiato accelerato. Suoni sempre più lontani, ma lui non poteva rallentare ad aspettarla. Scavalcava radici, evitava gli alberi con l'agilità di un leone di montagna, ma Etandro avrebbe voluto avere le ali di un'aquila.

Continua..

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