domenica 18 gennaio 2015

Nuove vite (2)

Nel patio antistante la sala del trono, immerso nella pace intatta della notte, Eeta misurava a passi lenti i sentieri di pietra che si inoltravano tra aiuole e fontane. File di piccole fiaccole li costeggiavano e li illuminavano con la loro luce tremolante.
Testa bassa, una mano nell'altra dietro la schiena, il re sorbiva a pieni polmoni la leggera brezza notturna, così rara nella canicola della stagione. Eppure non sembrava goderne: da ore attendeva lì la notizia della nascita del suo erede. Un maschio, avevano detto gli indovini, sangue forte, degno di suo padre. Ma anche la prima volta, tredici anni prima, erano stati altrettanto veloci a dare lo stesso responso. E poi era nata la principessa Calcìope.

«Se anche questa volta è una femmina, giuro sugli dei che farò sgozzare quei ciarlatani e ne farò appendere i cadaveri agli Alberi dei Morti!». Parlava più con se stesso che con la silenziosa figura a pochi passi dietro di lui. 
Teukros non era un consigliere, il suo unico compito era quello di proteggere il re e guidare i suoi soldati. Eppure Eeta spesso preferiva rivolgere a lui le sue lamentele piuttosto che ai melliflui, annuenti individui che lo circondavano da mattina a sera.

Da sei anni Teukros stava al suo fianco, da quattro sotto il titolo di lawaghetas, capo dell’esercito. Era il più giovane, l’ultimo arrivato tra gli uomini di Eeta, ma il re non aveva pensato due volte a mettere da parte il vecchio comandante per dare a lui quell'incarico. Teukros non ne ricordava più neanche il nome, ma da ragazzo era poco sensibile a ciò che non lo riguardava direttamente. 
Era il difetto che suo padre gli rimproverava più spesso, prima che Eeta lo prendesse con sé, ovviamente. “Non hai rispetto per i miei affari!”, gli urlava contro. “Ti importa soltanto di andare in giro a far vedere quanto sei forte e non ti importa se poi tua madre deve lavare via il sangue dalle tue vesti!”. Come se a lui importasse, invece. Per suo padre, sua madre non era altro che una schiava, Teukros lo sapeva bene. E quindi che continuasse pure a urlare. Lui sapeva badare a se stesso e con le sue sole forze era riuscito ad arrivare dove era. Gli era bastato sbattere un po’ tre delle guardie di Eeta, e il re era rimasto così impressionato da accoglierlo nel suo palazzo, addestrarlo e dargli una nuova vita, lontano dai noiosi affari per mare di suo padre e dagli occhi lacrimosi di sua madre.
  
"Sarebbe un imperdonabile spreco lasciare che un simile spirito guerriero resti confinato a una vita da attaccabrighe.", aveva detto Eeta a suo padre, quando lui gli aveva abbracciato le ginocchia chiedendo misericordia. Aveva paura che il re avrebbe mandato a morte il suo unico figlio, dopo tutto. Ma le cose erano andate molto diversamente. Teukros si era guadagnato un potere enorme, secondo solo a quello del re, battaglia dopo battaglia, conquista dopo conquista. Tutti, a cominciare dai suoi soldati, lo avevano sempre ritenuto troppo giovane per tutto quel potere, e più di uno gli aveva lanciato truci sguardi di invidia. Ma a Teukros non importava, stava sempre zitto, guardandosi intorno con quei suoi occhi da felino, proprio come in quella notte di spasmodica attesa.

«Se è una femmina – continuò Eeta coi nervi a fior di pelle – ripudierò mia moglie in meno di un respiro. Una donna incapace di partorire un erede al suo re non ha il diritto di essere chiamata regina! La metterò sulla prima nave per Creta e la manderò a fare compagnia a quella vacca di mia sorella Pasifae!». Teukros, alle sue spalle, non riuscì a trattenere un mezzo sorriso sentendo l’appellativo usato per la regina di Creta, moglie del potente Minosse, nota in tutte le terre bagnate dal mare per la sua insolita passione per i tori…

Il re si passò una mano tra i capelli, ancora folti e di un colore fulvo dai vivi riflessi ramati, benché l’età gli avesse già appesantito il corpo. In realtà Teukros si chiedeva spesso quanti anni avesse, ma nessuno sembrava saperlo. Eeta era giunto in Colchide prima di quanto il più vecchio degli abitanti riuscisse a ricordare. Si diceva che fosse figlio del dio Sole e, certo, doveva essere vero se, arrivato dal mare con appena una manciata di uomini, era riuscito in pochi anni a conquistare tutta la terra che si estendeva dal mare sino alle sorgenti del fiume, che gli indigeni chiamavano Phasis.

Per l’ennesima volta il re si stropicciò gli occhi, arrossati dalla stanchezza e dal fumo delle fiaccole, si voltò e tornò sui suoi passi. Si fermò accanto a Teukros, ma non guardava lui. Il suo sguardo annebbiato contemplava l’imponente sagoma del suo palazzo. 
«Guarda, Teukros. – gli disse senza distogliere lo sguardo - Prima del mio arrivo, qui era solo deserto e arbusti. Io ho fatto tutto questo, ho portato la magnificenza del mio palazzo e dei miei templi dove prima non c’erano che case di fango e paglia. Ho donato la vita a questa terra arida, rendendola fertile e rigogliosa. Ho domato questo popolo di selvaggi, che non conoscono le leggi di Zeus e cocciutamente si ostinano a praticare i loro strani riti e ad adorare i loro mostruosi dei per metà bestie…Stolti animali…» Il labbro superiore di sollevò in una spontanea smorfia di disgusto. «Eppure tutto il mio duro lavoro, tutto il mio potere dipendono da ciò che uscirà dal ventre di una donna! Gli dei non potevano dare all'uomo maledizione più grande…».

A quel punto forse Teukros sarebbe dovuto intervenire, ma con un tempismo perfetto alle loro spalle giunse la voce di Thalia, spezzata dal respiro corto. «Mio signore, - ansimò la ragazza – la regina…ha partorito…». 

Eeta si voltò di scatto, irritato: «Su, parla, piccola selvaggia! Come sta mio figlio? È un maschio, vero?».

Quando il re fece un passo verso di lei, Thalia istintivamente arretrò. «Sì, mio signore…un maschio sano e forte…ma…». 

La sonora risata di soddisfazione del re coprì quell’ultimo “ma”. «Padre Sole, ti ringrazio!», esclamò, levando le braccia al cielo. 

Thalia, però, aveva qualcosa da aggiungere. Iniziò a tremare visibilmente. «Perdonami, mio signore…ma la padrona stanotte ha partorito due figli: un maschio…e una femmina. Due gemelli, mio re.». Aveva pronunciato le ultime parole tutto d’un fiato. 

Eeta si bloccò esterrefatto, fissando gli occhi sbarrati prima su Thalia, sempre a testa bassa, e poi su Teukros, incontrando il suo sorriso d’augurio. Ma il re non sorrideva.
Era risaputo cosa poteva accadere con una doppia nascita e Teukros riuscì a vedere quel dubbio affiorare sulla fronte aggrottata di Eeta. «La…la regina è…». 
Thalia si affrettò a completare la frase: «È incolume, padrone: la regina Idia sta bene. È stremata, ma viva.».
Eeta si limitò ad annuire e quell’attimo di preoccupazione fu presto cancellato. «Bene, puoi andare.», disse, agitando la mano come se cacciasse via una mosca.

Tremando un po’ meno, Thalia si inchinò e si voltò per tornare dalla sua padrona e i due neonati. 
Nel voltarsi, la tunica della ragazza fu sollevata da un improvvisa folata di vento. Il suo fruscio attirò lo sguardo, fino a poco prima indifferente, di Eeta: il riflesso soffuso delle fiaccole accentuava le morbide curve della ragazza, che oscillavano con grazia sotto le vaghe trasparenze del lino, mentre la veste, da qualche mese divenuta un po’ troppo stretta, metteva in risalto le forme ancora acerbe del suo corpo snello. 
Il re arricciò le labbra, come per assaporare una coppa di vino e miele. «Schiava!», chiamò.
Thalia ebbe un tuffo al cuore, ma si fermò obbediente e si voltò di nuovo, tentando di apparire tranquilla. «Comanda, padrone.».
«Andrò a vedere mio figlio – continuò Eeta – e poi tornerò nel mio talamo. Voglio trovarti lì quando arriverò, in ordine e ben pulita.». Senza aggiungere altro, si allontanò in fretta.

Teukros fece per seguirlo, ma i suoi passi esitarono quando si trovò accanto alla piccola schiava, che si accasciava tra le aiuole scossa da brividi. Il capo delle guardie si tolse la clamide che teneva affibbiata alla spalla sinistra e delicatamente la pose attorno alle braccia della ragazza. 
«Vai da Bedisa, nelle cucine, - le sussurrò in un orecchio – e fatti dare una coppa di vino con semi di papavero. Dille che ti ho mandato io. Durerà poco, piccola, e non sentirai niente.». Dopo aver ricevuto un silenzioso cenno di assenso del capo, Teukros si allontanò sui passi di Eeta.
Prima di immergersi nell’oscurità del megaron, il lawaghetas si voltò di nuovo a guardare la piccola schiava. Se ne stava immobile tra i fiori di ibisco che schiudevano appena i loro petali, guardando fisso davanti a sé e stringendo la sua clamide. Per un attimo quegli occhi pieni di lacrime gli ricordarono quelli di sua madre. 

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