domenica 1 marzo 2015

Cacciatori e prede (3)

Quando Atalanta si risvegliò, il cielo sopra di lei cominciava ad imbrunire e i grilli tra i rami si univano nel loro monotono canto. “Sono i messaggeri dei morti. – le aveva detto una volta suo padre – Se ascolti con attenzione, sentirai le voci delle anime che ci hanno preceduto nell’Ade.”.
Perché erano così assordanti? Atalanta si sentiva perforare i timpani dallo stridio di quel lugubre canto. Le sembrava che tutti i grilli del bosco si fossero radunati sopra la sua testa. Portò una mano alla fronte: le doleva tremendamente. C’era qualcosa incrostato sulla pelle. Si accorse di poggiare la nuca su una roccia e di avere la pelle della braccia e del petto escoriata. Un profondo senso di apprensione si impadronì di lei, ma non avrebbe saputo spiegarne il motivo. Le tornarono in mente immagini confuse, che la agitarono ancora di più. 
Il canto dei grilli si faceva più forte, come se le ordinassero di alzarsi. Lo fece e avvertì un insopportabile bruciore tra le gambe. Guardò in basso e con terrore si accorse del sangue rappreso che le macchiava. Allora i ricordi tornarono chiari e lampanti, attraversandole l’anima come un fulmine. Il canto dei grilli le rimbombava nelle tempie. Il respiro non riusciva a seguire i battiti del cuore. Si guardava intorno, cercando, chiamando, ma soltanto la sua eco le rispondeva. Fece qualche passo, soffrendo per le ferite e barcollando per la paura di ciò che avrebbe potuto trovare. Continuò a cercare dietro gli alberi e tra i cespugli. Chiamava, come un pulcino nel nido. Poi lo vide, illuminato da un raggio di luna nascente: il corpo di suo padre, immobile come pietra e altrettanto freddo. 

Atalanta gli si gettò sopra, piangendo, scuotendolo, sapendo che non avrebbe risposto. Tra le lacrime vide il suo arco lontano da lui, ai piedi di un castagno. Con un braccio si asciugò gli occhi e il naso e andò a recuperare l’arma, troppo alta e pesante per lei. Nel sollevarla, alzò la testa, i capelli impastati di sangue e fango, e in lontananza, nella semioscurità della sera, scorse la sua casa. C'erano tre figure per terra, davanti alla porta. Una di esse era sua madre, immobile come papà-aquila, le braccia distese in avanti, come a voler afferrare qualcosa che non c’era.

Atalanta lasciò andare l’arco pesante e corse da lei. Gridava e le sue grida sovrastavano il canto dei grilli. Pianse e dimenticò il dolore del corpo. Dov’era suo fratello? Si costrinse a tacere, nella speranza di sentire un vagito, una vocina che chiamava la mamma. Nulla, solo i grilli chiamavano dai rami degli alberi.
Atalanta cadde in ginocchio accanto al corpo della madre, riempiendo la radura dei suoi lamenti, le tempie le pulsavano e gli occhi le bruciavano. Atalanta si strinse le braccia allo stomaco e, le unghie conficcate nella carne, lanciò un ultimo, terrificante grido. Lei stessa stentò a riconoscere la propria voce, selvaggia, graffiante, inumana.

Quando l’eco del suo grido si spense, anche il canto dei grilli cessò. Non un suono venne a turbare la notte, neppure lo stormire del vento tra le foglie. Anche il cuore di Atalanta aveva ritrovato una strana serenità, il respiro tornò regolare. Gli occhi asciutti, le mani ferme, la ragazza guardava la luna, la contemplava come colta da ipnosi. 
L’astro di Selene era già alto nel cielo, quando Atalanta decise che era giunto il momento di alzarsi. Le gambe le tremavano, ma riuscirono comunque a portarla al pozzo sul retro della casa. Dopo essersi liberata dei vestiti laceri, immerse il secchio nell’oscurità pregna dell’odore di muffa, lo tirò su senza fatica e si versò sulla testa una cascata d’acqua gelida. Ripeté l’operazione altre due volte, spargendo l’acqua su tutto il corpo, per lavare via ogni traccia di lordura. Quando alla fine vide la sua pelle bianca riflettere la luce della luna, buttò il secchio nel pozzo ed entrò in casa, alla ricerca di una tunica pulita. 
Ogni oggetto su cui posava lo sguardo le procurava una fitta allo stomaco: la sedia su cui sedeva sua madre quando allattava il “marmocchio” e un cavallino di legno riverso sulle assi del pavimento. Il mantello che suo padre indossava, quando andava a vendere le pelli, appeso a un chiodo sulla parete, e accanto, poggiato su un tavolino, un minuscolo pugnale, l’ultimo regalo di papà-aquila a sua figlia.
Atalanta chiuse gli occhi e tiro un paio di grossi respiri, come per scacciare il magone che le stava tornando. Tirò fuori da una cassapanca una tunica di cotone grezzo bordata di blu e una mantellina, quella che sua madre aveva ricamato con un piccolo cervo. Glielo aveva chiesto lei. Fissò la tunica con una fascia di cuoio, dove inserì il suo pugnale, e uscì di nuovo nella notte. 

Suo padre giaceva ai piedi di un olmo, nell’oscurità le sue braccia si confondevano con le radici che fuoriuscivano dal terreno. Atalanta raccolse l’arco e se lo mise in spalla di traverso, proprio come faceva lui quando andavano a caccia insieme. Era pesante, ma non le importava. Dalla cintura di Etandro sfilò la faretra con le poche frecce rimaste e se la legò in vita. Poi si abbassò sui talloni e iniziò a voltare il corpo di suo padre. 
Appena ci riuscì, istintivamente arretrò di scatto: i suoi occhi sbarrati avevano quasi perso il loro magnifico colore e la guardavano fissi, come se la chiamassero da lontano. Atalanta per la prima volta non riuscì a sopportare quello sguardo e, poggiando le mani sulle palpebre, le chiuse delicatamente. Ripreso il controllo di sé, afferrò poi il corpo del padre sotto le braccia e iniziò a trascinarlo verso la radura, emettendo brevi mugugni per lo sforzo. 
Lo adagiò poco lontano dalla casa, al centro dello spiazzo, e ripeté l’operazione con il corpo della madre. Ricompose i resti dei suoi genitori, dando loro una posa dignitosa e ripulendoli dalle tracce della violenza subita, con tanta cura che alla fine sembrava che se ne fossero andati nel sonno. Con qualche ramo e arbusti secchi, costruì attorno a loro una pira: un’opera rozza e imperfetta, molto diversa da quella che aveva visto una volta nei pressi di Tebe, tanti anni prima, quando i suoi genitori avevano deciso di lasciare l'Arcadia. 

Mentre raccoglieva e sistemava i rami, sentiva la mente incredibilmente vuota e leggera: faceva quello che andava fatto, proprio come le aveva insegnato suo padre. Si ricordò di quando le aveva mostrato come scuoiare un coniglio, sotto il suo sguardo disgustato: “Il segreto è non pensare a niente. – le aveva detto – Non pensare a quando il coniglio era vivo, né a ciò che avrebbe potuto fare, se non fosse morto. Non pensare al sangue, ai muscoli, ai tendini. Pensa soltanto a ciò che va fatto e in un istante sarà tutto finito.”
Non poteva più permettersi esitazioni, non più. Nessuno sarebbe venuto a rimediare ai suoi sbagli: era sola. Doveva fare quello che andava fatto e per prima cosa doveva dare pace alle anime dei suoi genitori, liberandole dalla catene mortali del corpo con il fuoco. I resti dei due scagnozzi uccisi da Etandro dovevano invece marcire nella polvere, lasciati in pasto a lupi e corvi, perché le loro anime fossero condannate a vagare nel mondo, inquiete per l’eternità, senza poter attraversare le rive dello Stige e purificarsi nelle acque del Lete, il fiume dell’oblio. 

Una volta completato il rogo funebre, Atalanta creò un fascio di rami secchi e vi diede fuoco, colpendo ripetutamente con una pietra la lama del suo pugnale. Accostò la torcia alla pira e guardò un ultima volta il volto dei suoi genitori. Le sembrò che le sorridessero. Nuove lacrime le punsero il naso, tentando di sgorgare, ma lei le trattenne e serrò le mascelle fino a far stridere i denti. 
Pregò in silenzio, rievocando le parole che le aveva insegnato sua madre. “Dea Persefone, regina dell’Averno, Consolazione dei defunti, accogli le anime dei miei genitori, ti prego. E quando saranno al tuo cospetto, ti supplico, dì loro che Atalanta è viva. In tuo nome, io maledico Neleo e Roikos, che hanno tolto loro la vita. Fa’ in modo che possa trovarli un giorno, perché ricevano dalle mie mani la giusta punizione.”.
La fiamma della torcia si rifletteva sui suoi occhi, ardenti come tizzoni. Prima di compiere il suo rito, le venne in mente un ultimo compito da svolgere. Si avvicinò ai cadaveri dei due sicari e, frugandogli tra le tasche, ne trasse fuori due monete, che andò a sistemare tra i denti dei suoi genitori. Caronte, il traghettatore di anime, avrebbe avuto così il suo compenso.

Tutto era pronto. Atalanta si portò una mano alle labbra e mandò un bacio a sua madre e suo padre. Voleva intonare un threnos, un canto funebre come alle esequie dei grandi re delle storie che aveva ascoltato da piccola. Ma l’unico canto che conosceva era la ninna nanna che le cantava sua madre prima di addormentarsi. La intonò e gettò la torcia sulla pira. 
Continuò a cantare, mentre le fiamme si innalzavano, tingendo il cielo di un bagliore purpureo. Mentre cantava, il suo pensiero andò al fratello, all’assassino Neleo, all’uomo-rettile di nome Roikos, alla voce di sua madre e agli occhi color miele di suo padre. 
Continuò a cantare e al suo canto si unì quello dei grilli.

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