sabato 6 giugno 2015

Morte e speranza (2)

Pelias avrebbe potuto ingannare il popolo, gente che non aveva mai visto il suo Iason che da lontano. Ma una madre non può essere ingannata. Quelle non erano la manine di Iason, né il suo naso, o la sua fronte. I piedini erano troppo lunghi, le ginocchia troppo sottili, Polimede riusciva a vederlo anche da sotto il telo funebre. Suo figlio era vivo, e aveva continuato a coltivare quella flebile luce di speranza nel suo cuore come una certezza, sin dal momento in cui aveva riaperto gli occhi.

«Popolo di Iolkòs – iniziò Pelias, zittendo la folla con la sua voce di tuono – siamo qui riuniti oggi per accompagnare il nostro amato re Esone e suo figlio, il principe Iason, nel loro viaggio verso la beatitudine dei Campi Elisi. Sono stati strappati al nostro affetto da un incendio, una fatale disgrazia generata dalla negligenza degli uomini o dalla crudeltà di demoni. Questo a noi non è dato saperlo. La regina Polimede, forse guidata dalla mente benevola di qualche dio, a stento è riuscita a salvare se stessa e suo figlio da quella notte di fuoco».

Polimede avrebbe volentieri staccato a morsi quella mano che la indicava con fare compassionevole. E se avesse urlato a tutti la verità, che non era stato il fuoco a uccidere il loro re? Ma sapeva che, così facendo, avrebbe soltanto guadagnato una rapida morte e perso l’unica speranza di vendetta che possedeva: vivere fianco a fianco con la vipera, finché non le avesse staccato via la testa di netto. Perciò che il traditore continuasse pure a far mostra della sua compassione, finché poteva.

La voce di Pelias continuava a gareggiare con il lamento delle onde. «… ma un’invisibile maledizione si era già impadronita del tenero corpo del principe, troppo debole per poter resistere all'infido veleno del fumo dell’incendio. I migliori medici della regione purtroppo non sono riusciti a frenare la mano inesorabile delle Moire, sulle quali neanche il sommo Zeus ha potere. Ma non abbandoniamoci al dolore, uomini di Iolkòs, e consoliamo i nostri cuori, poiché Iason, figlio di Esone, ha lasciato questa vita prima di conoscerne le amarezze. La cosa migliore e più desiderabile per gli uomini è non essere mai nati o, una volta nati, abbandonare presto la vita mortale. Che la dea Persefone vi accolga entrambi tra le sue braccia, amato fratello, caro nipote, e che conceda a Polimede, sposa devota e madre amorevole, una tregua dalle sue pene.».

“L’unica cosa che gli dei devono concedermi è la tua testa, viscida serpe!”. Ogni parola era stata un pugno allo stomaco di Polimede, ad ogni frase si era piantata le unghie nelle gambe insensibili, immaginando di farlo nelle orbite di Pelias. 

Eppure la sua rabbia non era determinata come avrebbe desiderato. Sentiva qualcosa alla bocca dello stomaco che la spingeva verso lo sconforto. Come avrebbe fatto ad avere la sua vendetta? Come poteva anche solo sperarlo? Lei, una donna storpia, sola e circondata da nemici. Anche la sua casa paterna era rimasta vuota: suo padre e suo fratello non erano più, inghiottiti insieme ai Lapiti dalla furia dei mostruosi guerrieri conosciuti come Centauri. La gente blaterava di mostri metà cavalli metà uomini, viziosi e assetati di sangue. L’unica cosa che Polimede sapeva è che anche loro, uomini o bestie che fossero, avevano distrutto la sua famiglia, così come Pelias aveva fatto pochi giorni prima. Bastò questo paragone a farle dimenticare la stretta alla bocca dello stomaco. Avrebbe trovato un modo.

Pelias gettò la torcia nella pira e in un istante le fiamme si innalzarono, accompagnate dai lamenti di pietà delle donne e dai mormorii di cordoglio degli uomini. 

Polimede udì un versetto di paura appena dietro di lei. Era Alcesti, la figlia minore di Anassibia. Alla vista di quel corpicino, poco più piccolo del suo, avvolto dalle fiamme, la bambina tirò la veste di sua madre, piagnucolando. «Mamma, ho paura!», le braccia alzate in cerca d’aiuto.

La donna la sollevò e la prese in braccio per tranquillizzarla. «Calmati, piccola, non è niente. Non devi avere paura. La morte è amica di chi soffre. Tutti siamo destinati ad abbracciarla, alcuni prima di altri, alcuni molto, molto tardi.». 

“Se la morte mi è amica, si prenderà le vostre teste prima della mia”. E Polimede si tenne stretta al cuore quella preghiera, finché le fiamme non divorarono del tutto le spoglie di Esone e dell'ignoto esserino che aveva tra le braccia.

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Le note struggenti di un thrénos si levarono dalla voce unanime della folla, accompagnando il denso fumo nero, che dalla pira in fiamme andava a oscurare il cielo. 
Un’unica figura assisteva silenziosa dal fondo della platea: un uomo massiccio si imponeva sugli altri uomini, coperto da una clamide sdrucita, che riusciva a malapena ad avvolgergli le spalle e gli omeri muscolosi; un cappello a larghe tese gli ombreggiava il volto dai lineamenti duri e abbronzati. Non si unì con la voce al canto funebre e immobile stava a guardare il fuoco che divorava i due cadaveri.

L’uomo si riscosse quando un’altra luce attirò la sua attenzione, un baluginio proveniente dalla collina appena sopra la spiaggia. Appariva e spariva continuamente, come se qualcuno cercasse di catturare il riflesso del sole con uno specchio. Un bagliore che aveva già visto parecchie volte, molti anni prima, nella quiete carica di tensione di una vallata, poco prima dell’infuriare di una battaglia. Ricordi di imprese lontane. Non si trattava del riflesso di uno specchio. 

Si spostò lateralmente e, calcandosi meglio il cappello sulla testa per vedere più lontano, scorse una testa rossa dietro quel luccichio. Il colosso si allontanò con noncuranza, tanto grosso quanto silenzioso. Si diresse cheto verso la fonte di quel bagliore, sulla collina, sicuro che nessuno si sarebbe mai accorto della sua assenza, lì dove la sua presenza non era prevista.

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