domenica 12 luglio 2015

Un nuovo giuramento (4)

«Che cosa hai intenzione di fare con quell’arco, ragazzina? Qualcuno potrebbe farsi male.».

Atalanta trattenne il respiro, la fronte imperlata di gocce di sudore. Lasciò cadere l’arco, per avere le mani libere di afferrare il pugnale che portava alla cintola. Ma non fece in tempo a voltarsi e puntare l’arma contro l’uomo alle sue spalle, che questo le aveva già ghermito il polso con una sola mano, facendole perdere la presa sul coltello e costringendola a sollevarsi sulla punta dei piedi. Un braccio nerboruto si sollevò a scalzare dalla testa un cappello a larghe tese, che con la sua ombra riusciva in parte a nascondere l'immane figura che lo indossava.

Non aveva mai visto un uomo più alto e grosso di lui: aveva la stazza e la forza di un orso, era ugualmente peloso, tranne che per la testa del tutto calva, e a occhio e croce sarebbe stato capace di schiacciarle il cranio come una noce. La scrutava incuriosito con i suoi piccoli occhi neri, mentre con la mano libera si grattava la mascella larga, ricoperta di una folta barba scura. 

«L-Lasciami andare!», balbettò la ragazza, appesa all’avambraccio nerboruto del gigante. 

«Prima dovrai dirmi che cosa facevi con quell’arco. È evidentemente troppo grande per te.», rispose quello, il vocione completamente inespressivo.

«Non sono affari tuoi, bestione!», ribatté Atalanta spazientita, cominciando a dimenarsi nel tentativo di sgusciare via da quella presa di ferro.

Il gigante sembrava non farci caso e continuava a guardarla con i suoi occhietti neri, aspettando una risposta alla sua domanda.

Dopo un po’ Atalanta cominciò a perdere sensibilità al braccio intrappolato. Che cosa poteva fare? Arrendersi? Continuare a lottare nella vana attesa che il gigante si stancasse prima di lei? Lei, poco più che una bambina, sola, stanca e, sì, anche impaurita. Le venne un groppo in gola al pensiero di aver fatto tutta quella fatica per niente. Il gigante intanto se ne stava in silenzio, immobile come un colosso, e nel frattempo la cerimonia sulla costa giungeva al termine: tutti si stavano dileguando insieme al fumo del rogo. Anche la famiglia reale ritornava sui suoi passi, seguita da Roikos e dai suoi uomini. 

Atalanta vide sfuggirle davanti agli occhi la sua occasione di fare giustizia e sentì montare dentro una rabbia furibonda, che sfogò tutta sul gigante, incurante delle conseguenze.
«Maledetto, stupido bestione! Hai rovinato tutto! Perché mi hai fermato?! La mia freccia non era per te! Che Zeus ti fulmini!». In preda all’ira scagliò un calcio dritto nello stomaco dell’uomo, ma questi non sembrò accusare il colpo, non più di quanto avrebbe fatto per il morso di una zanzara.

«Ah, davvero? – rispose, divertito – E per chi era la tua freccia, piccola Artemide? Ammesso che fossi riuscita a scagliarla...».

Atalanta ignorò la presa in giro: ormai priva di forze, penzolava inerme dalla mano del gigante. «Loro...Hanno ucciso i miei genitori…e anche mio fratello…». Perché glielo stesse rivelando, non lo sapeva. Di certo non le avrebbe creduto, o peggio, l'avrebbe portata dritta tra le fauci di Neleo e del suo uomo-rettile. Ma che importava, ormai? Aveva fallito. 

Quasi non si accorse di ricadere sull’erba, quando il gigante mollò la presa sul suo braccio livido. «Chi ha fatto questo?», si sentì domandare. Si voltò sorpresa...e inferocita.

«Neleo e quel viscido serpente che gli sta accanto, Roikos. Il tuo re non è altro che un bugiardo e un assassino!». Fulminò il gigante con lo sguardo, pregustando lo sconvolgimento che quelle parole gli avrebbero causato. 

Invece niente, l’uomo mantenne la sua espressione tranquilla, anzi, sembrava guardarla con una punta di compassione. E questo la fece infuriare ancora di più.

«Il mio re oggi se l’è preso il fuoco, ragazzina. Esone, figlio di Creteo, ora vaga tra le anime dell’Ade.– le rispose l'uomo-orso – Pelias ha distrutto la sua casa, ucciso i suoi uomini, imprigionato la sua sposa, e immagino abbia ucciso anche il piccolo principe Iason, quello che oggi hai visto ardere sulla pira. Ha nascosto le sue empietà dietro la storiella dell’incendio e del fumo.».

Atalanta ascoltava il gigante senza riuscire a percepire l’ombra dell’emozione nella sua voce: né rabbia, né tristezza, né pietà. Soltanto un profondo distacco e un vago sentore di rispetto per colui che aveva chiamato “il mio re”. Non riusciva a capire se ignorasse la verità o se la stesse deliberatamente nascondendo. Ad ogni modo, gliela avrebbe rivelata lei.

«Quello che hai visto bruciare sul rogo oggi, non era il tuo principe. Era mio fratello!». Ed eccola lì la verità, istantanea e potente come una scudisciata. Il gigante non sembrò risentirne. Sollevò appena uno dei suoi folti sopraccigli, tutto il resto rimase immobile. Ma Atalanta non demorse. «Neleo e i suoi uomini sono venuti a strapparlo ai miei genitori due giorni fa. Hanno fatto irruzione nella nostra casa, hanno rapito mio fratello, hanno ucciso mio padre e mia madre, mi hanno…». 

Solo a quel punto le parole non vollero più uscirle dai denti, nonostante la furia crescente. Perché avrebbe dovuto raccontare il suo dolore all’uomo che l’aveva ostacolata? Doveva solo andarsene di lì. Forse sarebbe riuscita a trovare Neleo e Roikos, forse non era ancora troppo tardi. Libera dalla stretta del gigante, si riappropriò del pugnale che giaceva ai suoi piedi e lo puntò minacciosa contro di lui, pronta a infilzarlo, se avesse cercato di fermarla di nuovo.

Ma il gigante non lo fece. «Come fai a dire che quello è tuo fratello?», le chiese invece, stringendo i suoi già piccoli occhi scuri.

Atalanta non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Perché l’ho visto, bestione! – urlò - Ho visto quell’uomo, Neleo, uccidere la mia famiglia! L’ho sentito parlare con quel Pelias della sua impresa, l’ho sentito offrirgli il cadavere di mio fratello per questa farsa di funerale! Vuoi che me ne vada in giro a inventare storie e a cercare vendetta senza motivo?! Io non avrei mai voluto mettere piede in questa lurida terra di assassini!».

Niente. Né gli insulti, né il pugnale stretto in mano, né la lampante evidenza della sua verità riuscivano a smuovere quella stolida faccia da orso. Eppure l'enorme petto villoso del gigante aveva cominciato a espandersi e contrarsi come un mantice in rumorosi, accelerati respiri. 

Atalanta si ricordò di un cinghiale che aveva ucciso l'anno prima insieme a suo padre e che, intrappolato, aveva cominciato a respirare allo stesso modo, poco prima di essere trafitto da due frecce.

Diversamente dal cinghiale, però, il gigante non si dimenava, né emetteva disperati gruniti. Inaspettatamente, invece, voltò le spalle ad Atalanta, si calcò di nuovo il cappello in testa e riprese a scendere il crinale della collina. 

«Vieni con me.». Le ordinò, secco. 

Continua...

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