domenica 26 luglio 2015

Un nuovo giuramento (6)

Camminarono l'uno a fianco all'altra finché il sole non smise di filtrare dai rami degli alberi. Si erano inoltrati nel cuore della foresta, ma Atalanta poteva ancora sentire di tanto in tanto l'odore salino del mare. Stavano procedendo lungo la costa, badando a tenersi ben lontani dalle vie battute da carri e viandanti.

L'aria cominciava a raffreddarsi, Atalanta sentiva i peli rizzarsi sulle braccia e dietro la nuca, una sensazione che la rendeva ancora più stanca e nervosa. «Hai intenzione di farmi attraversare a piedi tutta la regione?»

Nessuna risposta. Arktos continuava a mettere un passo dietro l'altro, male avvolto nella sua clamide striminzita, il cappello calcato in fronte.

«Sei diventato sordo? O ti sei inghiottito la ligua?»

Silenzio. Le sue parole sembravano avere lo stesso suono del vento.
Con un verso a metà tra un ruggito e un gridolino, Atalanta si fermò e piantò un piede. Le foglie morte e la terra umida glielo inglobarono e questo la spinse a urlare ancora di più. 

«Dimmi dove mi stai portando, o giuro che non muovo più un passo!».

Arktos finalmente sembrò accorgersi di lei. Si voltò, tornò indietro di un paio di passi e sollevò la tesa del cappello quel tanto che bastava perché Atalanta vedesse la sua espressione accigliata. «Te lo ripeto, ragazzina. - la voce resa ancora più cavernosa dal lungo silenzio - Non mi importa dove vai o cosa fai. Se vuoi restare qui a far da preda ai lupi, fai pure. Se, invece, vuoi seguirmi, la prima regola é non lamentarsi.»

«Io non mi sto lamentando. - ribatté lei stizzita - Ma certo non mi fido di te.»

«Non te lo sto chiedendo, infatti. Non ti sto chiedendo proprio niente. Sei tu ad aver bisogno di me, non il contrario.»

Atalanta iniziò a tremare. Per il freddo, per la rabbia, o per la stanchezza, non lo sapeva. I denti cominciarono a battere, impedendole di replicare. E senza neanche rendersene conto, si ritrovò seduta sul fogliame in putrefazione con una gran voglia di piangere. Si avvolse le braccia intorno al corpo, nel tentativo di frenare i tremori, pentendosi di non aver indossato una veste più pesante. Sua madre glielo avrebbe ricordato, ma lei non c'era più. Non doveva piangere. Doveva rimettersi in piedi e ricominciare a camminare, ignorare le fitte ai muscoli delle gambe e il bruciore delle vesciche ai piedi. Ora avrebbe puntato le mani sul terreno e si sarebbe rialzata. Forse anche Arktos glielo stava ordinando, ma non poteva esserne certa. Le orecchie le fischiavano e tutto ciò che vedeva era la sua cascata di riccioli rossi.

Aveva ancora le braccia avvolte intorno al busto quando sentì qualcosa di ruvido e caldo coprirle le spalle e la testa. A poco a poco, le dita ritrovarono sensibilità e toccarono lo sdrucito tessuto della clamide di Arktos.

Il gigante la guardava dall'alto in basso, gli occhi ridotti a due fessure cispose. «Adesso alzati, ragazzina. E tieni le mani sotto le ascelle.» Dopodicché le voltò le spalle, abbronzate e nerborute, e riprese il suo cammino.

Atalanta si strinse ancora di più nella clamide dal forte odore selvatico. "Chissà se l'ha mai lavata.", si chiese. Poi piantò un ginocchio e si rialzò senza emettere un fiato.

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domenica 19 luglio 2015

Un nuovo giuramento (5)

Quell'uomo non era solo strano. Era proprio pazzo, ora Atalanta ne era sicura. «Io non vengo da nessuna parte con te, bestione. Lasciami in pace.».

Il colosso si voltò a metà, le folte sopracciglia unite in mezzo alla fronte. «Ascoltami, ragazzina. Se vuoi farti ammazzare in uno dei tuoi goffi tentativi di tiro con l'arco, fai pure, non potrebbe interessarmi di meno. Ma se é la vendetta che vuoi, io sono l'unico, in un questo corrotto anfratto di terra dimenticato dagli dei, a poterti mostrare la strada per ottenerla. Vieni con me. Non te lo proporrò una terza volta.». E di nuovo, le diede le spalle, riprendendo il suo cammino a passi pesanti.

Atalanta lo lasciò fare. "Che l'Ade se lo porti, questo idiota impiccione."
Raccolse il suo arco e se lo rimise a tracolla, ma anche così la punta rinforzata in bronzo le strisciava tra le gambe, rendendo i suoi movimenti estremamente impacciati. 

Anche lei prese la via del crinale e una volta ai piedi della collina si ritrovò a un bivio. "Meglio che mi trovi un posto dove stare.", consigliò a se stessa. Da un lato la via portava a Iolkòs, all' agorà piena di uomini di Pelias, uomini come Roikos, che non avrebbero pensato due volte a mettere le mani addosso a una ragazza sola, vagabonda e vestita di nient'altro che di una tunica sporca. Per non parlare degli schiavisti, dei bordelli e dei miseri sicofanti, pronti a venderla al miglior offerente. 

Dall'altro lato del bivio, Atalanta poteva ancora distinguere la dondolante figura dell'uomo-orso che si avviava verso la macchia di olmi da cui era venuta la sera prima. Lo vide scomparire nella foresta prima di decidersi a seguirlo.

Corse quanto le permisero la faretra alla cinta e l'arco dietro le spalle: sentiva che la corda le stava segando il petto. Accolse con sollievo la frescura che trovò nella macchia alberi, ma quando gli occhi si abituarono alla penombra, si rese conto di essere stata troppo lenta. Aveva perso di vista il gigante, impresa per nulla semplice.

Frustrata, si guardò intorno, aspettando che il respiro tornasse normale.
«Di qua, ragazzina.», la richiamò la voce possente di quel bizzarro uomo peloso. Era a pochi passi alla sua destra, appena dietro un nodoso tronco di un leccio, eppure Atalanta non lo aveva neanche sentito.

«Non chiamarmi ragazzina.», gli intimò, affiancandoglisi.

«E come dovrei chiamarti?»

Atalanta non rispose, si limitò a guardarlo di sottecchi. Prima voleva vedere dove la stava portando.

L'uomo scrollò le spalle, indifferente. «Io mi chiamo Arktos, se può interessarti.»

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domenica 12 luglio 2015

Un nuovo giuramento (4)

«Che cosa hai intenzione di fare con quell’arco, ragazzina? Qualcuno potrebbe farsi male.».

Atalanta trattenne il respiro, la fronte imperlata di gocce di sudore. Lasciò cadere l’arco, per avere le mani libere di afferrare il pugnale che portava alla cintola. Ma non fece in tempo a voltarsi e puntare l’arma contro l’uomo alle sue spalle, che questo le aveva già ghermito il polso con una sola mano, facendole perdere la presa sul coltello e costringendola a sollevarsi sulla punta dei piedi. Un braccio nerboruto si sollevò a scalzare dalla testa un cappello a larghe tese, che con la sua ombra riusciva in parte a nascondere l'immane figura che lo indossava.

Non aveva mai visto un uomo più alto e grosso di lui: aveva la stazza e la forza di un orso, era ugualmente peloso, tranne che per la testa del tutto calva, e a occhio e croce sarebbe stato capace di schiacciarle il cranio come una noce. La scrutava incuriosito con i suoi piccoli occhi neri, mentre con la mano libera si grattava la mascella larga, ricoperta di una folta barba scura. 

«L-Lasciami andare!», balbettò la ragazza, appesa all’avambraccio nerboruto del gigante. 

«Prima dovrai dirmi che cosa facevi con quell’arco. È evidentemente troppo grande per te.», rispose quello, il vocione completamente inespressivo.

«Non sono affari tuoi, bestione!», ribatté Atalanta spazientita, cominciando a dimenarsi nel tentativo di sgusciare via da quella presa di ferro.

Il gigante sembrava non farci caso e continuava a guardarla con i suoi occhietti neri, aspettando una risposta alla sua domanda.

Dopo un po’ Atalanta cominciò a perdere sensibilità al braccio intrappolato. Che cosa poteva fare? Arrendersi? Continuare a lottare nella vana attesa che il gigante si stancasse prima di lei? Lei, poco più che una bambina, sola, stanca e, sì, anche impaurita. Le venne un groppo in gola al pensiero di aver fatto tutta quella fatica per niente. Il gigante intanto se ne stava in silenzio, immobile come un colosso, e nel frattempo la cerimonia sulla costa giungeva al termine: tutti si stavano dileguando insieme al fumo del rogo. Anche la famiglia reale ritornava sui suoi passi, seguita da Roikos e dai suoi uomini. 

Atalanta vide sfuggirle davanti agli occhi la sua occasione di fare giustizia e sentì montare dentro una rabbia furibonda, che sfogò tutta sul gigante, incurante delle conseguenze.
«Maledetto, stupido bestione! Hai rovinato tutto! Perché mi hai fermato?! La mia freccia non era per te! Che Zeus ti fulmini!». In preda all’ira scagliò un calcio dritto nello stomaco dell’uomo, ma questi non sembrò accusare il colpo, non più di quanto avrebbe fatto per il morso di una zanzara.

«Ah, davvero? – rispose, divertito – E per chi era la tua freccia, piccola Artemide? Ammesso che fossi riuscita a scagliarla...».

Atalanta ignorò la presa in giro: ormai priva di forze, penzolava inerme dalla mano del gigante. «Loro...Hanno ucciso i miei genitori…e anche mio fratello…». Perché glielo stesse rivelando, non lo sapeva. Di certo non le avrebbe creduto, o peggio, l'avrebbe portata dritta tra le fauci di Neleo e del suo uomo-rettile. Ma che importava, ormai? Aveva fallito. 

Quasi non si accorse di ricadere sull’erba, quando il gigante mollò la presa sul suo braccio livido. «Chi ha fatto questo?», si sentì domandare. Si voltò sorpresa...e inferocita.

«Neleo e quel viscido serpente che gli sta accanto, Roikos. Il tuo re non è altro che un bugiardo e un assassino!». Fulminò il gigante con lo sguardo, pregustando lo sconvolgimento che quelle parole gli avrebbero causato. 

Invece niente, l’uomo mantenne la sua espressione tranquilla, anzi, sembrava guardarla con una punta di compassione. E questo la fece infuriare ancora di più.

«Il mio re oggi se l’è preso il fuoco, ragazzina. Esone, figlio di Creteo, ora vaga tra le anime dell’Ade.– le rispose l'uomo-orso – Pelias ha distrutto la sua casa, ucciso i suoi uomini, imprigionato la sua sposa, e immagino abbia ucciso anche il piccolo principe Iason, quello che oggi hai visto ardere sulla pira. Ha nascosto le sue empietà dietro la storiella dell’incendio e del fumo.».

Atalanta ascoltava il gigante senza riuscire a percepire l’ombra dell’emozione nella sua voce: né rabbia, né tristezza, né pietà. Soltanto un profondo distacco e un vago sentore di rispetto per colui che aveva chiamato “il mio re”. Non riusciva a capire se ignorasse la verità o se la stesse deliberatamente nascondendo. Ad ogni modo, gliela avrebbe rivelata lei.

«Quello che hai visto bruciare sul rogo oggi, non era il tuo principe. Era mio fratello!». Ed eccola lì la verità, istantanea e potente come una scudisciata. Il gigante non sembrò risentirne. Sollevò appena uno dei suoi folti sopraccigli, tutto il resto rimase immobile. Ma Atalanta non demorse. «Neleo e i suoi uomini sono venuti a strapparlo ai miei genitori due giorni fa. Hanno fatto irruzione nella nostra casa, hanno rapito mio fratello, hanno ucciso mio padre e mia madre, mi hanno…». 

Solo a quel punto le parole non vollero più uscirle dai denti, nonostante la furia crescente. Perché avrebbe dovuto raccontare il suo dolore all’uomo che l’aveva ostacolata? Doveva solo andarsene di lì. Forse sarebbe riuscita a trovare Neleo e Roikos, forse non era ancora troppo tardi. Libera dalla stretta del gigante, si riappropriò del pugnale che giaceva ai suoi piedi e lo puntò minacciosa contro di lui, pronta a infilzarlo, se avesse cercato di fermarla di nuovo.

Ma il gigante non lo fece. «Come fai a dire che quello è tuo fratello?», le chiese invece, stringendo i suoi già piccoli occhi scuri.

Atalanta non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Perché l’ho visto, bestione! – urlò - Ho visto quell’uomo, Neleo, uccidere la mia famiglia! L’ho sentito parlare con quel Pelias della sua impresa, l’ho sentito offrirgli il cadavere di mio fratello per questa farsa di funerale! Vuoi che me ne vada in giro a inventare storie e a cercare vendetta senza motivo?! Io non avrei mai voluto mettere piede in questa lurida terra di assassini!».

Niente. Né gli insulti, né il pugnale stretto in mano, né la lampante evidenza della sua verità riuscivano a smuovere quella stolida faccia da orso. Eppure l'enorme petto villoso del gigante aveva cominciato a espandersi e contrarsi come un mantice in rumorosi, accelerati respiri. 

Atalanta si ricordò di un cinghiale che aveva ucciso l'anno prima insieme a suo padre e che, intrappolato, aveva cominciato a respirare allo stesso modo, poco prima di essere trafitto da due frecce.

Diversamente dal cinghiale, però, il gigante non si dimenava, né emetteva disperati gruniti. Inaspettatamente, invece, voltò le spalle ad Atalanta, si calcò di nuovo il cappello in testa e riprese a scendere il crinale della collina. 

«Vieni con me.». Le ordinò, secco. 

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domenica 5 luglio 2015

Un nuovo giuramento (3)

Atalanta aveva sentito il cuore balzarle in gola e le mani fremere per il desiderio di afferrare il pugnale e lanciarglielo dritto tra le scapole. Ma poi di certo un manipolo di guardie l'avrebbe assalita nel giro di un paio di battiti del cuore. Quella breve esitazione le aveva  permesso di capire che cosa i due stessero dicendo.

L’altro uomo parlava a Neleo con una certa preoccupazione: «Sei sicuro che non ci siano testimoni?».

«Roikos si è occupato a dovere dell’unica testimone, una ragazzina con i capelli rossi. Avresti dovuto vedere come si agitava! – aveva aggiunto Neleo con un ghigno – L’avresti detta figlia di Ares in persona!». Una risata tagliente aveva fatto gelare il sangue nelle vene di Atalanta.

«Ti prego, non dire altro, fratello! Risparmiami i dettagli di altre inutili morti. Se solo quella folle di Polimede avesse parlato, queste vite si sarebbero potute risparmiare. Che ricadano sulla sua coscienza, non sulla mia.».

«La coscienza. Che cos’è la coscienza se non un freno ai poteri dell’uomo? Una vocina fastidiosa, che distrae dall’unico, vero fine della vita mortale: la felicità. Dai pace al tuo cuore, Pelias. Quel che è stato non si può cambiare e andava fatto, lo sai bene. Adesso hai il corpo che ti serve per la cerimonia di domani: nessuno si accorgerà della differenza. Ad ogni modo il sudario  celerà ogni possibile fonte di dubbio.».

L’uomo di nome Pelias scuoteva la testa ad ogni parola e, per quanto sofferente fosse la sua espressione, non era minimamente paragonabile all’orrore che era piombato su Atalanta. 

Era di suo fratello che stavano parlando, questo lo aveva capito fin troppo in fretta. In un attimo la speranza di ritrovare il bambino era sfumata e l’immagine del suo corpo esanime andò ad unirsi al ricordo del giorno di sangue e violenza a cui era sopravvissuta. Aveva a stento trattenuto un conato di vomito, le orecchie avevano iniziato a fischiarle, mentre tutto attorno a lei girava come in un incubo. 

Si era precipitata fuori, uscendo da dove era entrata, in cerca d’aria che le purificasse i polmoni dalla putredine di quella casa maledetta. Si era gettata in una macchia buia, poco distante dal palazzo, e aveva smesso di reprimere i conati. Più lo stomaco si liberava, più la testa le si appesantiva. "Nessuno. Sola." Erano queste le uniche due parole che continuavano a rimbalzarle tra le tempie. 

Poi aveva sentito i sensi abbandonarla, ma in qualche modo la sua volontà non glielo aveva permesso. Si era costretta ad allontanarsi, anche se le gambe le tremavano come foglie al vento. Tutto intorno a lei si era trasformato in un vortice, tanto che a un certo punto non si rendeva più conto se stesse camminando sull'erba o sulle nuvole. 
Eppure aveva continuato a camminare, poi a correre e a tratti barcollare, finché la terra non aveva ceduto sotto i suoi piedi, inglobandole dita e sandali. Senza sapere come, Atalanta si era ritrovata sulla spiaggia, proprio davanti all' impalcatura per un rogo funebre. Il rogo per suo fratello. Ecco per chi si stavano dando tanto da fare tutte quelle persone. Poveri idioti: tutti a preparare una gran cerimonia per il figlio di un cacciatore.

Atalanta era rimasta lì, sulla sabbia umida e fredda, per un tempo interminabile, lo sguardo fisso sulla costruzione di legno. Avrebbe voluto gridare al mondo intero l’inganno di Pelias e i delitti di Neleo…ma a cosa sarebbe servito? Una ragazzina che accusa uomini potenti e armati sarebbe stata derisa dal popolo nel migliore dei casi, o trucidata come un capretto all’altare nel peggiore. 

Si era seduta, le braccia strette attorno alle ginocchia, e aveva provato a chiedere perdono ai suoi genitori, per non essere stata capace di salvare suo fratello, per essere stata troppo lenta. Ma soltanto la voce del mare le rispose. Una voce quieta e potente a un tempo, profumata di salsedine, che la trascinava via da tutta la morte che aveva assaggiato in meno di due giorni e le ricordava di essere ancora viva. E non senza motivo.

“Almeno avrai una pira da re, marmocchio. Che Persefone ti accolga.”, aveva pregato, mentre lasciava che il rumore delle onde le cullasse l’anima. 

Quando finalmente era riuscita a ritrovare la lucidità, Atalanta si era incamminata a passi lenti verso il colle sovrastante la costa e si era accasciata tra le sterpaglie, cercando il riposo per le poche ore che rimanevano della notte. Era invece rimasta intrappolata in una veglia stordita, costellata di immagini inquietanti, lacrime e pensieri di odio che il primo raggio di sole all’orizzonte faticò a spazzare via.

Aveva assistito alla costruzione della pira, alla deposizione del corpo di suo fratello tra le braccia di quell’uomo, quel cadavere sconosciuto con la maschera d'oro e al discorso di Pelias, ma i suoi occhi erano rimasti continuamente fissi su Neleo e su Roikos accanto a lui. 

Pensò che gli dei l'avessero abbandonata, quando non riuscì in alcun modo a tendere la corda dell’arco. Ne fu convinta, quando sentì una mano possente posarsi sulla sua spalla, accompagnata da una voce gutturale. 

Continua...